Per me e l’Aikido è stato amore a prima vista. Mi ha fulminato nel 2001 e da allora non ho più smesso, arrivando addirittura ad insegnare ad un piccolo gruppo dal 2010. Aikido per me significa benessere, mi ha sempre fatto sentire meglio, sia da praticante che da insegnante. E’ una disciplina meravigliosa, per cui sarò sempre grato sia a chi l’ha creata che a chi per primo me l’ha svelata. Ma non è tutto rose e fiori…
Può sembrare strano a chi ne è fuori, ma quello dell’Aikido è un mondo di gelosie, conflitti, invidie, critiche, chiacchiere, più spesso che sana pratica. Mi consolo ragionando che essendo purtroppo il Budo odierno costretto (?) a strutturarsi in associazioni e federazioni, è naturale che, come in tutti i gruppi, essendo fatti di persone, esistano questi fenomeni che poco ricordano i concetti di armonia, amore e miglioramento di se stessi che dovrebbero essere alla base di queste pratiche. Continuo a crederci, altrimenti smetterei. Ma a volte mi deprimo. Mi deprimo a vedere grandi maestri sbandierare i loro dan sui social network, mi deprimo a constatare che ogni gruppo è convinto di essere il migliore, mi deprimo a dover ammettere che più si cerca di comportarsi in modo genuino ed in base al proprio giudizio, più si cerca di essere liberi di scegliere, più ci viene detto cosa fare, più si è additati ed isolati.
Ma continuo, convinto che il messaggio originale di questa pratica sia il benessere psico-fisico, legandomi più strettamente possibile a chi è convinto di tutto questo, come fanno i naufraghi nel mare in tempesta, per darsi forza l’un l’altro. E sogno un Aikido di pura pratica, dura, faticosa, impegnativa – poche chiacchiere, pochi fronzoli. Leggo le storie dei grandi, che dal Giappone sono emigrati per trasmettere il messaggio. Erano altri tempi = altri uomini? Può darsi. Oggi viviamo nella società dell’apparire. Tutti vogliamo la nostra vetrina e ci sentiamo protagonisti nel nostro piccolissimo mondo privato. Ego, ego, ego…
Eppure il fondatore era convinto che l’Aikido generasse persone migliori! Magari mi sbaglio e ha funzionato: senza l’Aikido sarebbero state pure peggio! 😉
O magari tutto questo è necessario. Come racconta la mitologia shintoista, di cui l’Aikido è intriso, gli dèi avevano nascosto di proposito i principi spirituali, convinti che l’umanità dovesse prima sperimentare il materialismo e la razionalità tecnologica per poter un giorno afferrare davvero la spiritualità. Quindi forse anche l’Aikido, la danza degli dèi, deve prima immergersi nel mondo materiale, sperimentare il tecnicismo puramente formale, la chimera dei gradi, la voglia di apparire belli mentre eseguiamo la grande tecnica, riempire i tatami (e le tasche) facendo del Budo un business o uno sport. Solo dopo aver sperimentato tutto questo sarà possibile tornare alle origini, al significato profondo della pratica. Del resto è il percorso normale di ciascuno di noi: all’inizio ci può essere solo la tecnica; solo dopo averla sperimentata in tutte le forme possiamo abbandonarla ed esprimerci liberamente, come un musicista che si esercita ininterrottamente in movimenti meccanici che, solo dopo che sono stati acquisiti, possono essere poi dimenticati mentre si suona, lasciandosi andare al sentimento, alla passione, all’arte. Mi consolo così e vado avanti.
Penso ai grandi del passato, venuti dal Giappone. Penso a Hiroshi Tada, fondatore dall’Aikikai Italia, un ente morale, una associazione di cultura tradizionale giapponese. Non un ente sportivo: quando durante un pranzo qualcuno gli propose di adoperarsi perché l’Aikikai fosse riconosciuta dal CONI, lui non proferì parola, si alzò e se ne andò. E noi continuiamo a fondare associazioni sportive e a dimenarci per il riconoscimento del CONI quando non pratichiamo mica uno sport!
Mi viene alla mente anche Hideki Hososkawa, discendente di una nobile famiglia di samurai che ebbe persino Myamoto Musashi ai suoi servizi; Hosokawa venne in Italia chiamato da Tada, il suo primo insegnante (che gli fece fare una settimana di tenkan ed una di kaiten, così, per cominciare), per aiutarlo nella gestione dell’Aikikai. Putroppo è fermo dal 2004 per malattia. Per lui l’arte marziale “è un concetto che implica una serie di categorie del tutto diverse dall’alto e basso, lento e veloce, estetico ed inestetico, forte e debole. Qui avere 20 o 40 anni, essere il piu’ veloce del mondo, saltare 2,15 in alto non conta proprio niente”. “Nello sport importa solo vincere, non importa come, non interessa se per ottenere un K.O. si distrugge un uomo. Nel Budo il discorso e’ diverso”. “Vogliamo fare Aikido o preferiamo passare al Judo? Ossia siamo degni di un’arte o dobbiamo contentarci di uno sport?”
Motokage Kawamukai, pioniere dell’Aikido in Italia ma businessman, non aikidoka di professione, fu tra i primi giapponesi a insegnare Aikido nel nostro paese e scrisse lui all’Aikikai di Tokyo per far inviare un rappresentante, ottenendo poi Tada. Kawamukai arrivò a dire: “voi europei siete malati, l’Aikido non è una medicina e io non sono la vostra cura”.
Ripenso a Hirokazu Kobayashi, in Francia negli anni 60, isolato dai poteri forti, additato dalle federazioni ufficiali come il male, come quello da evitare, che predicava la libertà di insegnamento, così come diceva il fondatore, senza bisogno di autorizzazioni federali.
Ripenso al genio, Seigo Yamaguchi, che odiava le divisioni e mai creò una sua scuola nonostante l’enorme seguito, tanto grande era il suo rispetto per il fondatore e l’Aikikai, ma nonostante tutto non voleva imitatori e diceva: “Ueshiba è Ueshiba, io sono Yamaguchi”. A volte arrivava in ritardo o neanche si presentava a lezione. Lasciava gli allievi liberi di praticare. Un messaggio forte. Contrario a qualunque espressione del proprio ego.
Poche chiacchiere e tanta pratica. E libertà. Libertà di essere se stessi, di fare le proprie scelte, ma sempre in umiltà. Difficile, eh?