Viviamo in un periodo di grandi incertezze, di tensioni, di paure. La preoccupazione di essere aggrediti, di subire soprusi fisici, rapine, violenza è molto diffusa. A molti viene voglia di imparare a difendersi e spesso può capitare che la richiesta di corsi di difesa personale sia rivolta a chi insegna Aikido.
Come dico spesso, l’Aikido di per sé offre a chi lo pratica delle basi ottime per la difesa personale, ma questa non è lo scopo dell’Aikido. Ad essere sinceri, nella quasi totalità dei casi, l’allenamento dell’Aikido si svolge con determinati attacchi prefissati a cui si contrappongono tecniche di difesa altrettanto prefissate. Insomma, all’attaccante viene ordinato di attaccare in un certo modo e al difensore di reagire con una certa tecnica di cui è a conoscenza anche l’aggressore. Chi attacca sa esattamente cosa sta per succedergli e si prepara anche a subire quella data reazione. Tutto è prefissato. E’ l’allenamento tipico dell’Aikido. Il 90%, se non più, delle volte si fa così. Poi ognuno è libero di sperimentare, esiste anche l’allenamento “a sorpresa”, attacco libero e reazione libera. Ma come mai normalmente è tutto prefissato? E come mai gli attacchi appaiono così finti e piuttosto strani all’occhio del profano? A cosa serve allenarsi a difendersi da uno che attacca con la manina che accenna vagamente un colpetto dall’alto verso il basso, cosa che non succederà mai in una rissa? Che razza di allenamento è se so già che l’attaccante mi verrà incontro con quella manina sapendo già con quale tecnica lo immobilizzerò o lo proietterò?
Questo è quello che si chiede la stragrande maggioranza dei non praticanti di Aikido, dei praticanti di altre arti marziali (che ci ridono pure su), ma anche di qualche aikidoka, magari pure insegnante. I commenti ai video di Aikido su Youtube sono spessissimo molto ironici per arrivare fino all’aggressività e al disprezzo, anche nei confronti di dimostrazioni di maestri di elevatissimo spessore. Molti non capiscono cosa diavolo stiano facendo quei due e cosa ci sia di tanto difficile nell’Aikido visto che è tutto predeterminato. Chiunque lo potrebbe fare…
Perché succede tutto questo? Io alcune idee a riguardo me le sono fatte e vorrei tentare di esporle con la premessa che rispetto totalmente chi non la pensa come me a riguardo e mi aspetto lo stesso rispetto nei miei confronti. Voglio parlarne in questa sede in particolare ad uso di potenziali lettori che vengano ad allenarsi da me o che, avvicinandosi per la prima volta a questa arte marziale, si facciano domande di questo tipo.
Un’altra cosa di cui parlo spesso quando si discute di questi argomenti è la differenza sostanziale tra le discipline giapponesi del bujutsu e del budo. La seconda deriva dalla prima. La prima comprende le tecniche di combattimento usate dai soldati (dai samurai, nel passato del Giappone), quelle che servono in guerra ad eliminare il nemico o a sopraffarlo, o comunque a difendersi in battaglia per salvare la pelle. Oggi potrebbe comprendere teoricamente l’uso della pistola, del mitra, del bazooka, ecc. Un esperto di ciò che i giapponesi chiamano (o chiamavano?) bujutsu potrebbe essere oggi un militare delle forze speciali, un Incursore della Marina ad esempio, un poliziotto dei NOCS e così via. La parola bujutsu significa letteralmente tecniche o arte (entrambe jutsu in giapponese) del combattimento. “Bu” sta per guerra e guerriero si dice “bushi”. In italiano ed in altre lingue la parola bujutsu è stata tradotta come “arti marziali”. Allo stesso modo si traduce la parola “budo”, in cui “do” significa via, percorso, inteso come percorso di vita. Infatti i maestri giapponesi che crearono il budo utilizzarono le tecniche di combattimento (busjutsu) di cui erano esperti per trasformarle in un esercizio che potesse accrescere la qualità della persona che lo pratica. Il duro lavoro (interessante che in cinese si dica Kung Fu), le ripetizioni incessanti degli stessi movimenti, il rispetto dell’essenza comunque marziale dei gesti e dell’atteggiamento da mantenere, assicurano che l’esercizio non rimanga solo sul piano fisico ma si addentri nelle profondità del nostro essere, stimolando la crescita dell’individuo sia dal punto di vista psicologico che spirituale. Il tutto utilizzando gli stessi gesti con cui in origine si abbatteva un avversario, ma eliminando totalmente lo scopo originale, pena l’inutilità dell’allenamento dal punto di vista dell’accrescimento della persona e il rischio di fare irrimediabilmente male. Il problema è che budo o bujutsu, nelle lingue occidentali diventa semplicemente “arti marziali”, quindi si è comunemente portati a confonderne l’esperto con uno che “mena”, con qualcuno con cui è meglio non litigare o, peggio, con qualcuno che, a conoscenza di segreti orientali, possa essere utilizzato come infallibile sicario. Fermo restando che anche un aikidoka potrebbe essere “uno che mena”, forse varrebbe la pena di tradurre il termine “budo” con “via marziale” piuttosto che con “arte marziale”, così almeno non ci si fraintenderebbe più. Aikido sarebbe una Via marziale giapponese, quella dell’Aiki. O viceversa si potrebbe smettere di chiamare arti marziali le tecniche di combattimento e descriverle appunto come “tecniche marziali”. Di chi è la colpa di tutto questo? Di Bruce Lee ed il cinema di Hong Kong? I film degli anni 70 sulle arti marziali cinesi hanno creato l’immagine del marzialista violento, che si fa giustizia da solo dopo interminabili combattimenti; insomma arte marziale = sopraffazione. E le palestre si riempivano. Cos’è che attira così tanto della capacità di sconfiggere un altro? La paura di essere sconfitti. Sembra come se l’essere umano più felice fosse quello in grado di sconfiggere chiunque. Se tale “campione” esistesse davvero, pensate bene, sarebbe l’unico a non dover avere paura di nessuno! L’eroe del cinema western americano, che tanto andava nella stessa epoca, era il pistolero più veloce, quello che li ammazzava tutti, magari il giustiziere che finalmente arrivava in un paesino dove i cattivi avevano tenuto gli abitanti in soggezione per anni applicando la strategia del terrore. In sostanza lo stesso schema di base dei film giapponesi con protagonisti i samurai. I normali cittadini sono paralizzati dalla paura, non possono nulla contro i cattivi. Poi arriva quello che sa usare davvero la pistola o la katana (o le mani) ma che è dalla parte di chi ha subìto e sistema tutto: mette paura a quelli che usavano la paura per soggiogare i poveri sventurati.
La paura. Se abbiamo tanta voglia di imparare a difenderci è per paura che qualcuno ci possa attaccare. Anch’io avrei paura se un grosso sconosciuto mi volesse aggredire, figuriamoci! Peggio ancora se fosse un gruppo di sconosciuti tutti più grossi di me. Ancor più terribile è il pensiero che questo possa accadere alla mia famiglia. Il punto è che io non vivo con questo pensiero. Per mia fortuna non ho avuto esperienze di violenza o di aggressioni nella mia vita. La mia famiglia non era violenta e neanche i gruppi in cui ho socializzato, almeno non al punto da vivere con la costante preoccupazione di dovermi difendere. Ho frequentato anch’io da ragazzo la cosiddetta “strada”, convivendo con gente che probabilmente poi potrebbe aver preso una certa via. Nella mia scuola media c’erano compagni di classe che terrorizzavano fisicamente alcuni insegnanti, che mettevano le mani su ragazzine consenzienti (in classe) o mostravano loro gli “attributi” durante la normale lezione. Insomma, ho avuto un bel da fare per essere accettato da un gruppo fatto così ed ho usato tutto il mio aiki innato e allora totalmente inconsapevole per “armonizzarmi” ai miei compagni di classe fino al punto in cui tornavano davvero utili quando prendevano automaticamente le mie difese se qualcun altro mi minacciava fisicamente. Ma sto parlando di scaramucce tra adolescenti, che comunque mi hanno insegnato qualcosa, ma non mi hanno educato a vivere nella paura. Per un lungo periodo ho vissuto in campagna con la mia famiglia, ho un bimbo piccolo. Molti al posto mio si sarebbero dotati di un’arma da fuoco per difendersi. Noi lasciavamo la porta aperta quando usciavamo e le macchine aperte quasi sempre. Non ci è mai successo nulla e speriamo che vada avanti così, anche se oggi viviamo in appartamento in città (e chiudiamo la porta) non abbiamo mai vissuto nell’incubo che qualcosa ci potesse accadere. Il bello è che qualcuno potrebbe prenderci per pazzi, invece io credo semplicemente che siamo sereni.
Quello che voglio dire è che se vivessimo nel terrore, oltre ad essermi armato davvero, mi barricherei in casa con cani aggressivi ed allarmi collegati alle forze dell’ordine (come succede spesso abitando in città come Roma). Probabilmente non farei Aikido ma pugilato. Se davvero si ha il problema di vivere in un quartiere pericoloso (senza la possibilità di traslocare), penso che bisognerebbe rivolgersi alle forze dell’ordine, non all’Aikido. Se siamo certi che prima o poi qualcuno ci aggredirà, rivolgiamoci ad esperti della lotta per la sopravvivenza in uno scontro corpo a corpo, non all’Aikido. Altra cosa che dico spesso: in caso di aggressione è meglio avere qualche anno di Aikido alle spalle che niente. Meglio il Jujutsu? Credo di si in questi casi, ma anche le tecniche di Aikido, se si è messi in condizione di applicarle in modo poco rispettoso dell’incolumità altrui, possono essere davvero micidiali e non lascerebbero scampo. Ma diciamoci la verità: quanti di noi hanno davvero l’immediato bisogno di servirsi di qualcosa del genere? Ricordo la storia di un immigrato cinese. Lessi sui giornali che dei ladri, mi pare tre, gli si erano introdotti in casa, avevano legato lui e la moglie e avevano cominciato a svaligiarla. Poi, quando era chiaro che i tre erano interessati anche a violentare la moglie, il cinese, che da ottimo esperto di arti marziali era stato buono buono a farsi legare e derubare, perfettamente conscio dei rischi dell’autodifesa e perfettamente in grado di bilanciarli al valore degli oggetti che gli venivano sottratti, quando ha visto che le cose cambiavano drasticamente ed a rischio era la vita della sua donna, si è slegato da solo (poteva farlo anche prima) e li ha ammazzati a mani nude uno dopo l’altro, inseguendo l’ultimo in strada.
Ora immagino tutti i marzialisti che si immedesimano nell’esperto di Kung Fu e pensano a come lo avrebbero potuto fare loro al posto del cinese (l’ho fatto anch’io). Siamo tutti percorsi da un brivido di ammirazione per il “collega” che si è fatto rispettare e di orgoglio al pensiero di far parte della ristretta (?) cerchia dei cultori dei segreti micidiali d’oriente. Siamo chiari, il cinese ha ucciso gli aggressori. Posso anche arrivare a capire che nel terrore misto alla rabbia che si faccia del male a chi ami si possa arrivare a tale perdita di controllo, ma uccidere ed Aikido (o budo) sono assolutamente all’opposto. Ma dico anche: quante probabilità esistono realisticamente che anche solo uno degli ipotetici 500 lettori di questo articolo si troverà una sola volta nella vita a fronteggiare una situazione simile? Penso che si avvicinino moltissimo allo zero. L’hanno detto altri prima di me, ma lo ripeto: che senso avrebbe allenarsi una vita per fronteggiare qualcosa che al 99.99% non ci accadrà mai? Capisco se fate il soldato o il poliziotto, se vivete in una disastrata periferia urbana. Ma se siete impiegati o studenti universitari, a che scopo prepararsi alla guerra? Il problema è la paura, quella generalizzata, indefinibile, ma profondamente radicata nell’essere umano. E’ per combattere cose di questo tipo che è stato pensato un allenamento del tipo dell’Aikido o del budo in genere.
Quando si dice che in Aikido si combatte contro se stessi, contro le proprie paure ed i propri limiti, si intende esattamente questo. In tutta teoria, anni di pratica del budo dovrebbero farvi passare la paura di essere aggrediti e di conseguenza il bisogno di allenarsi in attesa di un combattimento che magari non arriverà mai. Ripeto per non essere frainteso: immagino esista qualcuno che abbia davvero il problema di doversi difendere fisicamente. In quel caso non serve il budo ma il bujutsu: difesa da coltello (quella vera), da pistola, da strangolamento, ecc., ma tenendo presente tutti i rischi che comporta, anche quello di incontrare qualcuno che ne sa di più, che è più cattivo, che non ha paura di far male o di farsi male, che so, un killer professionista con cui, ignari ma sicuri della nostra tecnica marziale, litighiamo per un parcheggio, qualcuno senza alcuno scrupolo: hai voglia a fare corsi e a prendere dan…
Ecco perché in Aikido l’allenamento è tutto prefissato: lo scopo non è quello di imparare tecniche micidiali che stendano un avversario che ci aggredisce. Non ci alleniamo (non sempre) alla sorpresa semplicemente perché non ci serve. Stiamo allenando altro, qualcosa che non è visibile all’esterno. L’assenza di combattimento, di competizione è necessaria a questo scopo. E’ possibile allenare lo spirito anche con la competizione agonistica, ma secondo me è più difficle, si rischia di essere fuorviati dalla voglia di primeggiare. Per questo in Aikido c’è bisogno di ripetizione continua, di cambiare partner, di cadere e rialzarsi, di subire leve articolari non distruttive (ma che lo sarebbero potenzialmente). E di sudare! Si, c’è bisogno di dirlo perché in alcune interpretazioni dell’Aikido c’è anche chi si allena senza sudare. Ognuno è libero di fare e pensare quel che vuole, ma da “noi” si suda eccome! E’ la base di tutto. Da lì poi si parte per molto altro, non si allena, ovviamente solo il fisico. Se ci allenassimo al combattimento (quello vero), non rimarremmo in molti per la lezione successiva. Presto il “più forte” si ritroverebbe da solo, senza nessun con cui allenarsi. Cosa avrebbe ottenuto come risultato? Un posto negli assaltatori? Per quello ci sono altri percorsi. Non dico che il combattimento non formi e tempri anche lo spirito, ma non è per tutti e soprattutto non si può fare ad ogni età. L’Aikido può essere iniziato da piccoli e praticato per sempre, è un percorso di vita, non è uno scherzo. Se ci allenassimo al combattimento, all’uso della forza distruttiva, questo sarebbe impossibile. Fin da quando ho iniziato, ho potuto verificare di persona, e mi succede ogni volta che mi alleno ancora oggi, che non importa quanto sia sfinito dalla giornata di lavoro che volge al termine mentre mi reco presso il dojo: dopo l’Aikido, anche se l’allenamento è stato duro, sto comunque molto meglio di prima. La stanchezza fisica è passata, o meglio, è di tipo diverso, si sente che è fruttuosa. La stanchezza mentale è svanita… E succede sempre, invariabilmente. Le uniche volte che non mi è successo è stato quando abbiamo provato tecniche di lotta, così, tanto per provare e divertirci. La stanchezza era ben superiore, nonostante il divertimento. Non mi sentivo meglio di prima. Sarebbe certo diverso a 20 anni, chi lo nega, ma è proprio questo il punto: Aikido serve a far star bene anche i 50enni, se li faccio fare “a botte” non ottengo questo. Ma se a qualcuno piace, non lo trovo strano più di tanto, ma non posso aiutarvi e non credo possa l’Aikido, a meno di non snaturarlo. Ciò non vuol dire che in Aikido stiamo lì a sorriderci e a toccarci delicatamente mentre danziamo. L’allenamento è duro, spesso al limite psicofisico di ognuno, che, intendiamoci, è diverso per un 20enne ed un 50enne, ma va a volte sperimentato. Bisogna dare il massimo o la cosa è inutile.
Una sera due rappresentanti delle forze dell’ordine sono venuti ad assistere ad una lezione, interessati all’Aikido anche per difesa personale. Sorrisi sorpreso, dicendo, forse ingenuamente, che per la difesa personale mi sarei semmai rivolto a loro. Non li ho più rivisti. Ho perso due iscritti? Forse. Alcuni consigliano di “vendere” un po’ più di difesa personale, anche se poi non la faccio per davvero. Chi verrà per quello capirà in seguito l’inutilità della violenza e sarà un aikidoka guadagnato. Probabilmente è giusto, ma non sono in grado di insegnare difesa personale e non mi interessa, con tutto il rispetto di chi la fa. Sono semmai in grado di farvi “sentire” la mia passione per l’Aikido e magari di trasmettervela, in modo che anche voi ne rimaniate irretiti e possiate usufruire di tutti i benefici che offre questa pratica. Conosco e stimo un insegnante di Aikido che fa il poliziotto nella vita (per strada, non dietro la scrivania). Il tipo è molto atletico e piuttosto grosso. Ogni tanto insegna ai suoi difesa personale (e con cognizione di causa), ma li fa vestire normalmente, in tuta, non col keikogi: quel giorno si fa difesa personale, non Aikido…
Una volta mi è capitato di sentir dire da un’aikidoka che l’Aikido non serve a nulla ma è troppo bello per smettere. Mi sembra una contraddizione: se è così bello vuol dire che è servito a tanto, non a poco o nulla! E’ diffusissima questa percezione che l’arte marziale che “funzioni” sia quella che insegna a sopraffare qualcuno. Aikido è costruttivo, non distruttivo. Ripeto, le tecniche dell’Aikido potrebbero fare davvero molto male. Il punto è perché fare del male? L’Aikido dovrebbe prevedere l’incolumità di chi ci attacca. L’ideale sarebbe difenderci da un aggressore applicando una tecnica che lo lasci sbalordito ed inoffensivo – ma incolume. Così magari sarebbe spinto ad intraprendere la via dell’Aiki ed avremmo aiutato un’altra persona ad affrancarsi dalla violenza. Sogni? Si, non ci credo troppo neanche io, anche se la teoria è completamente corretta. Immagino che per potersi davvero difendere in quel modo utilizzando solo l’Aikido si debba essere a livelli indescrivibili. Daniel Goleman, autore di “Intelligenza Emotiva”, racconta nel suo libro del suo amico aikidoka Terry Dobson (1937-1992), tra i primi allievi occidentali del fondatore dell’Aikido Morihei Ueshiba, che si trovava negli anni 60 a Tokyo per allenarsi. Nella metropolitana entra un gigante puzzolente d’alcol ed aggressivo con tutti. La tensione sale mentre l’aikidoka americano, giovane e nel pieno delle forze, comincia a valutare la situazione per neutralizzare il tipo grazie alle sue tecniche di Aikido. Non appena si decide ad intervenire, gli si para davanti un vecchietto giapponese (che immancabilmente immagino come Morihei Ueshiba) fronteggiando il brutto ceffo con un sorriso. Il vecchio parlava dolcemente al tipaccio, riconoscendo che avesse avuto una pessima giornata e come fosse difficile la vita, come lo comprendesse, ecc. Quando Terry Dobson scese alla sua fermata, il gigante piangeva accoccolato al vecchio. L’americano si rese così conto di aver visto davvero l’Aikido in azione e di avere ancora molto da imparare.
Terry Dobson si allena da Morihei Ueshiba
L’autore usa questo esempio per spiegare il concetto di intelligenza emotiva, molto sviluppata nel vecchietto e un po’ meno nel suo amico aikidoka. Ecco a che livelli si deve essere per difendersi davvero con l’Aikido. Bisogna avere un altissimo quoziente di intelligenza emotiva. Ma chi ce l’ha? Non è facile non pensare a come staccare un braccio ad un tipaccio che minaccia tutti senza una ragione… Poteva anche andare che l’aikidoka eseguisse a sorpresa un ikkyo sul malcapitato e lo bloccasse a terra senza sforzo, incuriosendolo e portandolo a fare Aikido anche lui. Ma probabilmente è una soluzione meno raffinata e più facile da applicare. Diciamo pure che un Ueshiba più giovane avrebbe applicato la seconda, un Ueshiba più vecchio la prima. Ma solo perché più anziano e debole? O forse perché più avanti nella Via e quindi al di sopra di certi modi?
Vorrei chiarire questo punto: una cosa è l’anziano che si sente troppo debole per ricorrere alla tecnica fisica e, suo malgrado, rimpiangendo la gioventù, è costretto ad usare altre capacità; un’altra è l’anziano che grazie alla sua esperienza di vita ritiene inutile utilizzare certi metodi e per questo preferisce evitare lo scontro fisico, non per paura di non farcela. E’ così che io immagino Ueshiba, ma non sarebbe meglio arrivare a certi livelli prima di essere vecchi? Lo ammetto, non sono certo un santo dell’aiki, anch’io perdo le staffe (non facilmente, almeno questo!) e a volte avrei proprio voglia di menare le mani; ogni tanto faccio i miei voli pindarici immaginando cosa farei se qualcuno attentasse alla sicurezza mia o dei miei cari. Messo alle strette potrei anch’io sentire il bisogno che le mie mani diventassero armi distruttive. Ma è qualcosa che in tutta probabilità non mi accadrà mai e lo spero vivamente.
L’Aikido serve ad altro e mi serve ad altro. Mi ha sicuramente aiutato nella vita, nel creare la famiglia che ho e nel raggiungere il lavoro che sognavo. Ho sempre avuto innato un certo modo di essere e di fare che Aikido non ha fatto altro che incoraggiare, modellare ed indirizzare al meglio. La filosofia e la spiritualità di cui l’Aikido è intriso non c’entrano nulla, dicono che Ueshiba non ne parlasse mai a lezione e nessuno l’ha mai fatto con me. Si tratta di praticare duramente in un certo modo. Automaticamente lo sforzo che si compie col fisico viene trasmesso ad altre parti del proprio essere.Per rispondere ancora una volta a coloro che lamentano una totale falsità nella pratica dell’Aikido, se facessimo cose utili a vincere un combattimento in una gabbia, tutto questo non sarebbe possibile. Aikido è praticato da persone che hanno responsabilità in famiglia, sul lavoro, da ragazze e ragazzi che studiano a scuola o all’università. Nessuno di loro può permettersi di venire meno a certe responsabilità per infortuni causati da tecniche “reali”. Una guardia del corpo ha responsabilità particolari, è un discorso diverso. Noi abbiamo bisogno di un allenamento che ci faccia star bene nella vita di tutti i giorni, sia nel nostro fisico che nei rapporti con gli altri, al lavoro, a casa, a scuola, tra amici o al centro commerciale. Con Aikido tutto ciò è possibile ed è questo ciò che cerco di trasmettere ai miei corsi.
La madre che accompagna il figlio al dojo mi dice che i suoi problemi di asma sono notevolmente diminuiti da quando si allena. Il ragazzo di una praticante, dopo qualche prova ha preferito venire agli allenamenti di Aikido piuttosto che continuare con l’amato calcetto. Una ragazza scopre che non può fare a meno dell’Aikido, un altro mi dice che gli è entrato nel sangue. Questi sono i risultati che mi danno soddisfazione; non cerco di essere il maestro di queste persone, ma solo di fare in modo che l’Aikido possa fare per loro qualcosa di simile a quello che ha fatto e sta facendo per me. Mi è capitato di entrare in palestre che evidenziavano l’articolo di giornale in cui un praticante aveva neutralizzato un ladro con coltello. Non che non sia stato bravo, ci mancherebbe, ma in questo articolo preferisco “pubblicizzarmi” come sopra.
Un praticante mio coetaneo mi dice che ha finalmente trovato un’attività fisica che si diverte a fare, con tutti gli altri sport ha sempre smesso subito. La nuova passione lo ha spinto a comprare una katana che espone nel suo ufficio. Un suo cliente, praticante di Jujutsu, la nota e capisce poi dal suo atteggiamento che l’arte marziale che pratica è l’Aikido.
Dal suo atteggiamento…
Che fossi sulla strada giusta…?
Pubblicato in inglese anche su Aikido Journal del 26 novembre 2012.
Daniel Goleman, Intelligenza Emotiva, Ed. Bur
Guido Luigi Buffo, L’Aikido – Una tradizione di Bellezza, Ed. Mediterranee
Rapina tra cinesi, due uccisi con il KungFu – Corriere della Sera 12 ottobre 2003
Terry Dobson su Wikipedia.org
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