Siamo ormai in isolamento da una decina di giorni. Per la prima volta nella nostra vita trascorriamo le nostre giornate chiusi in casa, spesso da soli.
La mia prima reazione di fronte alle disposizioni è stata di incomprensione. Mi chiedevo: “Perché sta succedendo a noi? Se ci sentiamo in buona salute, perché dobbiamo restare a casa? Siamo convinti che coloro che praticano le arti marziali siano sani nel corpo e nello spirito: perché dunque non abbiamo più il diritto di lavorare?”.
Mi sono posto queste domande per un giorno o due; poi, passato il primo istinto che mi induceva a rifiutare questa situazione (che a me, come a molti altri, sembrava stupida), ho iniziato a riflettere.
Ascoltiamo le notizie e ci rendiamo conto che, ora dopo ora, diventano più drammatiche. Dobbiamo dunque arrenderci all’evidenza: quello che si sta verificando è un problema umano, un problema della globalizzazione.
Proprio a questo punto volevo arrivare: l’aikido ha conosciuto un percorso simile a quello della globalizzazione. In origine l’aikido – questa strana “malattia” – si praticava in un contesto molto ristretto. L’insegnante era uno solo, e pochi erano gli allievi, debitamente selezionati. Prima di poter pretendere di diventare allievi di O Sensei, era necessario conseguire un grado elevato in un’altra arte marziale. In seguito l’aikido è stato oggetto di una sorta di “democratizzazione”. Si è sviluppato nel mondo intero. Col tempo, è diventato impossibile controllarlo in qualsiasi modo dal punto di vista formale. Ciascun paese ha sviluppato un approccio particolare a questo sistema. Ogni praticante ha un’idea personale della pratica.
In questi momenti di isolamento, mi sembra che il corona virus e l’aikido seguano un cammino simile.
All’inizio, non capiamo nulla di quello che succede
, e ci interroghiamo su cosa sia questo “virus” e da dove venga. Allo stesso modo, quando saliamo sul tatami per la prima volta, ci chiediamo che cosa stiamo facendo, chi deve attaccare, chi deve difendersi. In entrambi i casi, si verifica un’incomprensione normale; poi, una volta che la pratica diventa più regolare, le informazioni che riceviamo si configurano in modo più preciso, e cominciamo a capire quello che sta succedendo.
Così, scopriamo che è possibile accettare i problemi ai quali all’inizio sembrava impossibile trovare una soluzione. Quelle stesse difficoltà permettono di migliorare, e di accettare i problemi; tanto quelli del virus, tanto quelli della pratica.
Per me il virus è come un partner con cui non si ha voglia di praticare. All’inizio sperimentiamo l’incomprensione e la diffidenza ma, man mano che andiamo avanti a lavorare, riusciamo ad accettare le differenze e a comprendere il come e il perché della pratica del partner.
In questi momenti di solitudine il corpo e la mente non funzionano più come al solito. Bisogna resistere alla stanchezza e alla depressione. Proprio per questo la nostra arte – parlo per me – ci aiuta a sopportare questo periodo. Durante una lezione siamo chiamati a combattere, a non arrenderci mai. Abbiamo bisogno dell’altro per progredire, e l’allenamento deve aiutarci a continuare quando siamo da soli.
La mia prima reazione di fronte alle disposizioni è stata di incomprensione. Mi chiedevo: “Perché sta succedendo a noi? Se ci sentiamo in buona salute, perché dobbiamo restare a casa? Siamo convinti che coloro che praticano le arti marziali siano sani nel corpo e nello spirito: perché dunque non abbiamo più il diritto di lavorare?”.
Mi sono posto queste domande per un giorno o due; poi, passato il primo istinto che mi induceva a rifiutare questa situazione (che a me, come a molti altri, sembrava stupida), ho iniziato a riflettere.
Ascoltiamo le notizie e ci rendiamo conto che, ora dopo ora, diventano più drammatiche. Dobbiamo dunque arrenderci all’evidenza: quello che si sta verificando è un problema umano, un problema della globalizzazione.
Proprio a questo punto volevo arrivare: l’aikido ha conosciuto un percorso simile a quello della globalizzazione. In origine l’aikido – questa strana “malattia” – si praticava in un contesto molto ristretto. L’insegnante era uno solo, e pochi erano gli allievi, debitamente selezionati. Prima di poter pretendere di diventare allievi di O Sensei, era necessario conseguire un grado elevato in un’altra arte marziale. In seguito l’aikido è stato oggetto di una sorta di “democratizzazione”. Si è sviluppato nel mondo intero. Col tempo, è diventato impossibile controllarlo in qualsiasi modo dal punto di vista formale. Ciascun paese ha sviluppato un approccio particolare a questo sistema. Ogni praticante ha un’idea personale della pratica.
In questi momenti di isolamento, mi sembra che il corona virus e l’aikido seguano un cammino simile.
All’inizio, non capiamo nulla di quello che succede
, e ci interroghiamo su cosa sia questo “virus” e da dove venga. Allo stesso modo, quando saliamo sul tatami per la prima volta, ci chiediamo che cosa stiamo facendo, chi deve attaccare, chi deve difendersi. In entrambi i casi, si verifica un’incomprensione normale; poi, una volta che la pratica diventa più regolare, le informazioni che riceviamo si configurano in modo più preciso, e cominciamo a capire quello che sta succedendo.
Così, scopriamo che è possibile accettare i problemi ai quali all’inizio sembrava impossibile trovare una soluzione. Quelle stesse difficoltà permettono di migliorare, e di accettare i problemi; tanto quelli del virus, tanto quelli della pratica.
Per me il virus è come un partner con cui non si ha voglia di praticare. All’inizio sperimentiamo l’incomprensione e la diffidenza ma, man mano che andiamo avanti a lavorare, riusciamo ad accettare le differenze e a comprendere il come e il perché della pratica del partner.
In questi momenti di solitudine il corpo e la mente non funzionano più come al solito. Bisogna resistere alla stanchezza e alla depressione. Proprio per questo la nostra arte – parlo per me – ci aiuta a sopportare questo periodo. Durante una lezione siamo chiamati a combattere, a non arrenderci mai. Abbiamo bisogno dell’altro per progredire, e l’allenamento deve aiutarci a continuare quando siamo da soli.
Da giovani siamo molto mobili; per avere l’impressione di aver praticato “bene”, dobbiamo spremerci come limoni e sudare come mantici. Man mano che andiamo avanti e invecchiamo, prestiamo più attenzione alla qualità dei movimenti che alla fatica.
Da quindici giorni sono in isolamento spontaneo poiché, di ritorno da Parigi, avrei rischiato di contagiare la mia famiglia, la quale si è trasferita in un altro alloggio. In principio, aver adottato questa decisione mi ha sorpreso. Pensavo: “Non è possibile che io abbia il virus!”. Una volta chiuso in casa però la ragione ha prevalso sulla collera; naturalmente la vita e la salute della mia famiglia sono molto più importanti del mio personale benessere.
Sono dunque solo da quindici giorni. Confesso che all’inizio, per due o tre ore, sono stato invaso dalla tristezza. Il tempo di riflessione e le telefonate ricevute da diversi amici e allievi mi hanno dato la forza e la voglia di vivere al meglio questi momenti di solitudine.
Tutti i grandi maestri e leader religiosi, di qualunque orientamento e origine, hanno vissuto dei momenti di solitudine propizi alla riflessione e alla meditazione.
Mi sembra importante seguire il loro stesso cammino. La solitudine permette di tornare all’essenziale, di ricentrarsi sulle cose realmente importanti. Quando pratico, cerco di non dire una parola alla persona con cui sto lavorando. Cerco di concentrarmi su quello che fa, e soprattutto su quello che posso fare io per ascoltarla.
Lo avevo già scritto in un altro articolo. Prima di mostrare quello che si è capaci di fare, è indispensabile comprendere il modo in cui il partner si muove ed evolve.
Spesso alcuni allievi mi chiedono di fare meditazione; rispondo loro che praticare per un’ora senza dire una parola è un’azione molto vicina alla meditazione in posizione seduta, assimilabile allo Zen.
Una volta il M. Yamaguchi mi ha detto questa frase: “Ti alleni troppo, il tuo corpo non può assimilare tutte le informazioni che riceve; rischia di diventare una macchina. Riposati, prenditi il tempo per consentire al tuo corpo e alla tua mente di assimilare tutto quello che gli hai imposto durante ore e ore di pratica”.
Questa frase è assolutamente vera. Nella nostra arte non occorre essere forti, occorre essere … presenti a lungo. Conosco molti allievi, brillanti studenti, che non praticano più. Troppo bravi e allo stesso tempo troppo superficiali, presto si sono stancati di sforzarsi di comprendere e pagare il prezzo di soffrire per essere ancora migliori.
Una pausa di un mese o due permette al corpo di sviluppare il desiderio di comprendere quanto il nostro cervello ha assimilato durante il tempo di riposo. Tra la comprensione intellettuale e quella corporale intercorre necessariamente un lungo lasso di tempo. L’ideale sarebbe che entrambi i livelli di comprensione evolvessero parallelamente.
Questi giorni di isolamento sono tutti uguali. Dovrò uscire da questa situazione più forte e più determinato di prima, per dare ai miei allievi tutto l’aiuto che si aspettano da me per sradicare dal proprio corpo e dalla propria mente questi momenti di frustrazione e di collera.
Quando torneremo a essere liberi, vivremo un nuovo inizio. Non saremo mai più come prima. Ci sarà chiesto di ripartire alla grande per ritrovare le sensazioni che avevamo. La mente sarà convinta di non
Da quindici giorni sono in isolamento spontaneo poiché, di ritorno da Parigi, avrei rischiato di contagiare la mia famiglia, la quale si è trasferita in un altro alloggio. In principio, aver adottato questa decisione mi ha sorpreso. Pensavo: “Non è possibile che io abbia il virus!”. Una volta chiuso in casa però la ragione ha prevalso sulla collera; naturalmente la vita e la salute della mia famiglia sono molto più importanti del mio personale benessere.
Sono dunque solo da quindici giorni. Confesso che all’inizio, per due o tre ore, sono stato invaso dalla tristezza. Il tempo di riflessione e le telefonate ricevute da diversi amici e allievi mi hanno dato la forza e la voglia di vivere al meglio questi momenti di solitudine.
Tutti i grandi maestri e leader religiosi, di qualunque orientamento e origine, hanno vissuto dei momenti di solitudine propizi alla riflessione e alla meditazione.
Mi sembra importante seguire il loro stesso cammino. La solitudine permette di tornare all’essenziale, di ricentrarsi sulle cose realmente importanti. Quando pratico, cerco di non dire una parola alla persona con cui sto lavorando. Cerco di concentrarmi su quello che fa, e soprattutto su quello che posso fare io per ascoltarla.
Lo avevo già scritto in un altro articolo. Prima di mostrare quello che si è capaci di fare, è indispensabile comprendere il modo in cui il partner si muove ed evolve.
Spesso alcuni allievi mi chiedono di fare meditazione; rispondo loro che praticare per un’ora senza dire una parola è un’azione molto vicina alla meditazione in posizione seduta, assimilabile allo Zen.
Una volta il M. Yamaguchi mi ha detto questa frase: “Ti alleni troppo, il tuo corpo non può assimilare tutte le informazioni che riceve; rischia di diventare una macchina. Riposati, prenditi il tempo per consentire al tuo corpo e alla tua mente di assimilare tutto quello che gli hai imposto durante ore e ore di pratica”.
Questa frase è assolutamente vera. Nella nostra arte non occorre essere forti, occorre essere … presenti a lungo. Conosco molti allievi, brillanti studenti, che non praticano più. Troppo bravi e allo stesso tempo troppo superficiali, presto si sono stancati di sforzarsi di comprendere e pagare il prezzo di soffrire per essere ancora migliori.
Una pausa di un mese o due permette al corpo di sviluppare il desiderio di comprendere quanto il nostro cervello ha assimilato durante il tempo di riposo. Tra la comprensione intellettuale e quella corporale intercorre necessariamente un lungo lasso di tempo. L’ideale sarebbe che entrambi i livelli di comprensione evolvessero parallelamente.
Questi giorni di isolamento sono tutti uguali. Dovrò uscire da questa situazione più forte e più determinato di prima, per dare ai miei allievi tutto l’aiuto che si aspettano da me per sradicare dal proprio corpo e dalla propria mente questi momenti di frustrazione e di collera.
Quando torneremo a essere liberi, vivremo un nuovo inizio. Non saremo mai più come prima. Ci sarà chiesto di ripartire alla grande per ritrovare le sensazioni che avevamo. La mente sarà convinta di non
aver dimenticato, ma il corpo sarà cambiato, avrà subito tanti cambiamenti che dovremo accettare. Se siamo forti però non abbiamo ragione di preoccuparci.
In questo periodo, occorre fare esercizio? Personalmente svolgo un allenamento di base: salgo cinque volte le scale del condominio in cui abito, e l’ultima volta faccio gli scalini a coppie di due per dare mobilità alla mia anca, che mi dà un po’ fastidio. Faccio parecchio stretching, e alcuni suburi che mi consentono di rilassare le tensioni alla schiena e alle spalle.
Ho però deciso di non fare nient’altro, in modo tale che, una volta che questa situazione sarà finita, il mio corpo provi un desiderio incredibile di riscoprire le sensazioni sperimentate in precedenza e provarne altre che, spero, mi faranno diventare migliore e renderanno il mio insegnamento più accessibile.
Per me, l’aikido è l’arte di accettare l’inaccettabile. Significa accettare la pratica di uno sconosciuto. Si tratta di accettare che non possiamo esprimerci come vorremmo. Per questo occorre dare al proprio corpo e alla propria mente questi tempi di riflessione.
Alla fine, potremmo renderci conto che la persona con cui stiamo praticando non è stupida quanto credevamo. Questo virus, forse, è un mezzo per fare comprendere all’umanità il significato e l’importanza della condivisione, della solidarietà e dell’aiuto reciproco.
Per me, il virus e l’aikido sono due strumenti che consentono di capire che arrabbiarsi non serve a niente, così come vincere da soli non serve a nulla e tutto ciò che non viene donato va perduto.
Quest’ultima frase non è mia, ma è tratta dal libro La città della gioia di Dominique Lapierre.
In questo periodo, occorre fare esercizio? Personalmente svolgo un allenamento di base: salgo cinque volte le scale del condominio in cui abito, e l’ultima volta faccio gli scalini a coppie di due per dare mobilità alla mia anca, che mi dà un po’ fastidio. Faccio parecchio stretching, e alcuni suburi che mi consentono di rilassare le tensioni alla schiena e alle spalle.
Ho però deciso di non fare nient’altro, in modo tale che, una volta che questa situazione sarà finita, il mio corpo provi un desiderio incredibile di riscoprire le sensazioni sperimentate in precedenza e provarne altre che, spero, mi faranno diventare migliore e renderanno il mio insegnamento più accessibile.
Per me, l’aikido è l’arte di accettare l’inaccettabile. Significa accettare la pratica di uno sconosciuto. Si tratta di accettare che non possiamo esprimerci come vorremmo. Per questo occorre dare al proprio corpo e alla propria mente questi tempi di riflessione.
Alla fine, potremmo renderci conto che la persona con cui stiamo praticando non è stupida quanto credevamo. Questo virus, forse, è un mezzo per fare comprendere all’umanità il significato e l’importanza della condivisione, della solidarietà e dell’aiuto reciproco.
Per me, il virus e l’aikido sono due strumenti che consentono di capire che arrabbiarsi non serve a niente, così come vincere da soli non serve a nulla e tutto ciò che non viene donato va perduto.
Quest’ultima frase non è mia, ma è tratta dal libro La città della gioia di Dominique Lapierre.
Philippe Gouttard, 27 marzo 2020
Traduzione a cura di Martina Olcese, Sakura Aikido Dojo, Genova
Foto di Guillaume Erard