La figura femminile ha avuto in Giappone un ruolo fondamentale se si pensa che la fondatrice del paese del Sol Levante fu proprio una dea, Amaterasu. Ma si contarono anche numerose imperatrici, tra cui alcune abili guerriere, come l’imperatrice Jingu (III secolo d.C.) che invase la Corea. Negli annali storici si trovano anche riferimenti a potenti sacerdotesse. Soltanto quando la Cina cominciò a influenzare il Giappone, la donna perse la sua importanza, fino a trasformarsi dopo il XIII secolo in un elemento sociale sottomesso al padre, al fratello, al marito, al figlio. Eppure nei secoli la donna giapponese ha saputo mantenere qualcosa dell’antica indipendenza, tanto da scrivere il primo romanzo della letteratura mondiale, il Genji Monogatari o combattere a fianco del proprio samurai.
Alcune fonti tramandano che le donne dei samurai non erano né belle, né colte, né eleganti; sappiamo invece che tenevano al loro aspetto tanto da tingersi le labbra di rosso, depilarsi le sopracciglia, sbiancarsi la pelle con polvere di riso, tingersi i denti di nero, curarsi lunghi capelli. La solitudine caratterizzava le loro giornate in quanto il marito era quasi sempre impegnato in combattimenti lontano da casa. Spesso l’abitazione poteva essere attaccata dai nemici e le cronache tramandano casi di donne che combattevano con l’arco e l’alabarda per difendere la loro dimora. Alcune volte ci sono state mogli che hanno seguito i mariti sui campi di battaglia per dimostrare la loro devozione. Se l’amore era stato un sentimento importante per i nobili, che comunque erano poligami, per i samurai che invece erano monogami, l’amore per la donna si configurava più sotto forma di rispetto che di passione. Se prima del matrimonio la donna poteva avere esperienze con più uomini, una volta sposata la fedeltà diventava un obbligo, tanto che il tradimento veniva punito con il ripudio e il divorzio. Il matrimonio avveniva in giovane età in modo che gli eventuali figli crescessero con genitori giovani. Se l’amore poteva essere un sentimento individuale, il matrimonio era sempre un fatto di famiglia, quindi il consenso dei genitori era fondamentale per il samurai, tanto che molti di essi usarono il matrimonio a scopi politici, soprattutto per procurarsi alleanze; se questa abitudine da un lato convalidava l’autorità degli uomini, dall’altro diminuiva d’altro canto quella della donna.
Il rito del matrimonio era piuttosto semplice e consisteva nello scambio tra i due sposi di tre coppe di sake che venivano bevute in tre sorsi (sansankudo). Il matrimonio diventava però regolare soltanto dopo la nascita del primo figlio e poteva, essere sciolto con il consenso dei coniugi o con il ripudio della donna che tornava alla casa paterna, mentre i figli restavano al marito. La moglie di un samurai poteva anche fuggire in un tempio dove rimaneva tre anni e dopo era considerata divorziata. Il marito poteva picchiare la moglie ma sempre lievemente in quanto incorreva in pene gravi se la feriva.
La vita dei nobili era caratterizzata da un’estrema noia, ma le donne dei samurai rivestivano una certa importanza in quanto si occupavano dell’andamento della casa, dell’educazione dei figli e del loro uomo.
Ma per il samurai il sentimento primario era la fedeltà al proprio signore e soltanto dopo veniva l’amore per la moglie e i figli.
Il parto era un atto naturale che avveniva in una stanza al cui centro era stato posto un tatami bianco. La donna non gridava mai durante il travaglio ed era assistita dalla servitù, mentre un sacerdote o un guerriero facevano vibrare le corde di un arco per allontanare gli spiriti malvagi. Il bambino appena nato veniva avvolto in un panno bianco mentre il cordone ombelicale era tagliato con un coltello di bambù.
All’esterno della stanza veniva messo un ramo di salice per indicare che il luogo era tabù e sia la partoriente che le sue assistenti erano considerate impure. Il neonato faceva il suo primo bagno purificatore soltanto dopo qualche giorno e nell’acqua venivano immersi gioielli per la prosperità e immagini di una tigre per la salute. Per trenta giorni si diceva che lo spirito del bambino non era ancora stabile dentro di lui tanto che poteva uscire con la madre solo nel trentunesimo giorno per recarsi al tempio scintoista. Il padre intanto, dopo essersi purificato, offriva un leggero pasto agli amici. L’età del bambino veniva calcolata in un modo particolare: alla nascita aveva già un anno in quanto si considerava la gestazione, poi un altro anno era attribuito subito alla nascita per cui un bambino nato verso la fine dell’anno era considerato già di due anni.
Anche se oscurata dal prestigio dell’uomo, la donna samurai è comunque esistita. Se una donna nasceva in una famiglia di Samurai era anche lei una Samurai, quindi le mogli e le figlie dei samurai erano anch’esse samurai. Appartenevano, cioè, allo stesso gruppo sociale, ma, naturalmente, con compiti ben diversi. La moglie di un samurai, od okusan (letteralmente, “colei che rimane nella casa”), doveva principalmente occuparsi degli affari domestici e dell’educazione dei figli. I valori che, secondo la tradizione, dovevano infondere lo spirito di una donna di casta samurai erano umiltà, obbedienza, disciplina. La loro posizione sociale era decisamente subordinata ai maschi.
La loro classe sociale, spesso dimenticata, era chiamata “onna bugeisha” o “donne samurai”, ed era costituita da una piccola rappresentanza delle classi giapponesi più elevate.
Molte mogli, vedove, figlie e ribelli risposero alla chiamata per partecipare alle battaglie, spesso a fianco dei samurai. Essendo tutte membri della classe dei bushi (guerrieri) nel Giappone feudale, vennero allenate nell’uso delle armi per proteggere le loro case, le loro famiglie e il loro onore nei tempi della guerra, ma rappresentarono anche una vistosa differenza dalla visione tradizionale di moglie e casalinga tipica della donna giapponese.
Il termine consiste nel nome femminile onna (donna) e il derivato maschile bugeisha (guerriera), e crea un misnome che può essere considerato piuttosto controverso.
La donna samurai riceveva, in famiglia, la stessa educazione per quanto riguardava disciplina e autocontrollo, usi e consuetudini della società e principi confuciani. Era preparata alle arti marziali con armi prettamente femminili come la naginata (asta con lama curva) che divenne l’arma simbolica delle donne samurai, come la katana lo era per gli uomini.
La Naginata, costituita da una lunga lama montata su un’asta, è nata durante il periodo delle guerre come arma degli Yamabushi, i monaci guerrieri. Dal 1600, con la pacificazione del paese, essa diviene l’arma delle mogli dei samurai, infatti ogni ragazza di nobile famiglia doveva portare in dote al marito una naginata e doveva dimostrare di saperla maneggiare, questo perché spesso i mariti erano fuori casa ed ella doveva essere in grado, all’occorrenza di proteggere la casa e la famiglia dai malintenzionati. Esse venivano infatti addestrate con tecniche specifiche pensate per difendersi da avversari più forti e numerosi, come nel caso di una donna aggredita da un gruppo di briganti.
Le loro tecniche marziali prevedevano anche di nascondere pugnali tra la capigliatura come fossero fermagli e l’utilizzo di un particolare ventaglio (tessen), una vera e propria arma usata anche dai samurai uomini. Un’altra arma considerata tipicamente femminile era il tanto, un corto coltello da celare nelle ampie maniche di un kimono. Inoltre era addestrata all’uso dell’arco e veniva iniziata all’arte della disposizione dei fiori (ikebana) e all’arte della cerimonia del tè (chanoyu).
Le donne nella civiltà giapponese ricoprivano comunque un ruolo secondario; il fatto che fossero ammesse allo studio delle arti marziali deve farci capire quanto lo spirito del bushido fosse profondamente radicato nella cultura giapponese.
Nella storia del Giappone vi sono state donne guerriere con grande potere come Masako, vedova di Minamoto Yoritomo, conosciuta come “la monaca Shogun” (XIII secolo). Erano tenute al giri, ovvero l’obbligo del guerriero nei confronti del proprio signore e l’accettazione della morte. Non di rado le donne samurai prendevano il posto del marito quando questi era morto o impossibilitato a combattere. Il suicidio rituale (seppuku) era praticato anche dalle donne, che sono ricordate soprattutto come esempi di lealtà verso lo sposo. Alcune storie raccontano di mogli suicidatesi prima che il samurai andasse in battaglia affinché questi potesse affrontare la morte liberamente, senza vincoli emotivi di alcun tipo. Mentre per il samurai era previsto il taglio del ventre (hara kiri), alle donne era concesso di tagliarsi la gola.
Le onna bugeisha sono state figure molto importanti nel Giappone antico. Icone importanti come la già citata Principessa Jingu, Tomoe Gozen, Nakano Takeo e Hojo Masako furono tutte onna bugeisha che segnarono la storia del Giappone modellandolo in quello che la nazione è diventata oggi.
Molto tempo prima dell’emergere della riconosciuta classe samurai, i guerrieri giapponesi erano altamente addestrati per maneggiare la spada e la lancia. Le donne dovettero imparare ad usare naginata, tanto e kaiken (un pugnale più corto del tanto) in battaglia a causa della scarsità di guerrieri uomini in alcune comunità.
La Principessa Jingu (a lato – circa 169-269 a.c.) utilizzò le proprie capacità per ispirare i cambiamenti sociali ed economici del periodo. Fu leggendariamente riconosciuta come la onna bugeisha che guidò un invasione in Corea nel 200 a.c. dopo che suo marito, il 14° imperatore del Giappone, Chuai, fu ucciso in battaglia. Secondo la leggenda, guidò miracolosamente la conquista giapponese della Corea senza versare una goccia di sangue. Nonostante le controversie sulla sua esistenza e i suoi successi, la Principessa Jingu è un esempio di onna bugeisha nella sua interezza.
Anni dopo la sua morte, Jingu fu in grado di trascendere la struttura socioeconomica che si era instillata in Giappone: nel 1881, l’imperatrice Jingu diventò la prima donna ad essere rappresentata sulle banconote giapponesi, studiate appositamente per evitare la contraffazione, la cui immagine fu stampata su carta rettangolare.
Durante i periodi Heian e Kamakura, le donne che eccellevano sui campi di battaglia erano un’eccezione piuttosto che la regola. A causa dell’immagine della femminilità giapponese la maggior parte delle donne erano predisposte ad essere considerate entità senza potere. Esempi importanti potrebbero essere le signore della corte imperiale che passavano la loro vita scrivendo poesie e osservando la Luna. Un’immagine di questo tipo è in chiaro contrasto con quella della donna guerriero, ma nonostante tali premesse, le donne furono comunque strumentali nell’esplorazione di nuovi territori sociali. Alcune donne furono in grado di guidare il loro clan. Nel 1868, durante la battaglia di Aizu (nella guerra di Boshin), Nakano Takeko, del clan Aizu, quello che deteneva i segreti dell’Aikijutsu, fu reclutata a capo della divisione femminile dell’esercito che combattè nell’assalto contro 20.000 soldati delle truppe imperiali giapponesi nel territorio di Ogaki. Altamente preparata con la naginata, Takeko e la sua divisione, composta da una ventina di altre donne, si unirono in battaglia ad altri 3000 samurai Aizu. Un momumento fu eretto in suo onore nel tempio Hokai a Aizu Bengemachi nella provinciadi Fukushima.
Nel periodo Kamakura la guerra Genpei (1180 – 1185) fu combattuta tra i Taira (Heike) e i Minamoto (Genji), due importanti e potenti clan del tardo periodo Heian. Su quest’epoca fu scritta l’epica storia Heike Monogatari, che narra degli scontri tra i clan Heike/Taira e Minamoto/Genji, e furono tramandate molte storie di samurai devoti e coraggiosi. Tra questi ci fu Tomoe Gozen (a lato), moglie di Minamoto Yoshinaka del clan Minamoto (o Genji). Gozen assistette il marito contro gli assalti del cugino, Minamoto no Yoritomo. Durante la battaglia di Awazu, il 21 febbraio 1184, Gozen guidò le truppe contro le forze nemiche, si lanciò contro il più forte dei guerrieri nemici, lo disarcionò, lo colpi a morte e lo decapitò, Nel Heike Monogatari, Gozen viene descrtitta come una persona “estremamente bella, con la pelle chiara, i capelli lunghi e portamento delicato. Fu anche un notevole arciere e con la spada fu un guerriero che valeva mille, pronta a confrontarsi con un demone o un dio, a cavallo o a piedi. Sapeva cavalcare cavalli non domati con estrema perizia e poteva correre a rotta di collo per i più impervi pendii. Quando una battaglia si faceva imminente, Yohinaka la inviava come primo comandante, equipaggiata con una pesante armatura, una spada dalle dimensioni più grandi del normale ed un potentissimo arco: e Gozen si lanciava in azioni di maggior valore di quelle di qualsiasi altro soldato“.
Anche se non è provato si tratti di una figura storica, Gozen ebbe un grosso impatto sulla classe guerriera, incluse molte scuole tradizionali di Naginata. Le sue azioni in battaglia ricevettero molte attenzioni dalle arti scritte (Tomoe no Monogatari) e pittoriche (dipinti ukiyo). Con il passare del tempo, l’influenza della onna bugeisha si spostò dalla pittura alla politica.
Dopo che il clan Heike (detto anche Taira) fu spinto verso le provincie occidentali, si stabilì il Kamakura bakufu (shogunato, 1185-1333), sotto la guida di Minamoto no Yoritomo. Dopo la sua morte, sua moglie, Hojo Masako, fu la prima onna bugeisha ad occupare ruoli importanti nella politica, durante i primi anni del regno Hojo. Masako si fece suora buddista, destino tipico delle vedove dei samurai, diventando nota come “il Generale con gli abiti da suora”, spingendo la classe samurai a supportare il proprio figlio Minamoto no Yoriie come primo reggente Hojo (Hojo Shikken, a Kamakura).
Con gli sforzi congiunti di Masako e alcuni politici manovrati, le leggi che governarono la corte dello shogun all’inizio del 13° secolo garantirono alle donne gli stessi diritti del ramo maschile. Queste leggi permisero anche alle donne di amministrare la finanza, le proprietà, seguire la casa e amministrare la servitù, e di poter allevare i propri figli secondo la tradizione e l’onore dei samurai. E, ancora più importante, le donne giapponesi poterono e dovettero difendere le proprie case in tempo di guerra.
Fonti:
http://www.shubukanvoghera.it/