Questa sensazione che chiamiamo dolore in Aikido è sempre stata per me uno stimolo di interesse intellettuale. In effetti, perché cercare da soli queste situazioni di dolore? Perché passiamo ore ed ore a cadere, rotolare, a farci torcere i polsi in tutte le direzioni, a ricevere degli shock da partner che dovrebbero esserci “amici”? Presumiamo che il dolore sia necessario per progredire nella Via. Questo dolore è il nostro limite, è ciò che ci permette di conoscere e comprendere. Senza di esso non siamo nulla. La vera difficoltà non sta nel domandarci se possiamo sopportarlo, ma fino a che punto ci potremmo spingere nell’accettazione del dolore. Ma più importante è, forse, capire quando ciò diventi soltanto semplice stupidità.
La nostra arte davvero ci insegna cosa significhi il dolore. Tutti soffriamo, ognuno fa male all’altro, ma nessuno accetterebbe di sopportare tutta questa sofferenza se non fosse per la sensazione di benessere che segue le sessioni di allenamento. Livelli ragionevoli di sofferenza transitoria portano sempre a periodi di pace e tranquillità. Il mio percorso nell’Aikido mi ha aiutato a capire e ad accettare la sofferenza che all’inizio prendevo come un fallimento. Ricordo il mio primo anno di pratica, quando tutto era sofferenza, sia fisica che morale. Infatti il mio corpo non sopportava neanche il più piccolo movimento, che lo eseguissi da solo o con un partner. Il primo di questi movimenti era, infatti, la posizione che chiamiamo “seiza”. Dopo aver praticato per anni il calcio senza mai eseguire alcun esercizio di stretching sia prima che dopo l’allenamento, sedermi sui talloni mi provocava dolori intensi. Sfortunatamente, ancora oggi questo dolore mi impedisce di provare pace e calma quando adotto questa posizione.
Questa semplice posizione mi ha insegnato il significato del dolore. Ma questa sofferenza è diventata ancor più dolorosa quando i maestri giapponesi che venivano in Francia mi chiedevano continuamente se fossi o meno troppo scomodo. Questa posizione impossibile mi ha insegnato, fin dai primissimi tempi, che non ero capace di rilassare completamente i miei muscoli. E’ anche una cosa che mi fa capire di non essere ancora un maestro, non potendo eseguire le mie tecniche nello stesso stato di rilassamento che vedevo in altri grandi maestri come Seigo Yamaguchi Sensei, che dopo ogni lezione aveva i muscoli del collo completamente rilassati. Ma la posizione di seiza in effetti mi ha insegnato la forza di volontà. Stare seduto in quella posizione per lunghe ore mi ha insegnato a focalizzare ancor di più l’attenzione sui discorsi e sui gesti del Sensei, per prima cosa per distogliere la mente dal dolore, poi per riuscire ad immagazzinare più informazioni possibile.
Dovrei anche parlare delle differenze tra uomo e donna in termini di percezione ed accettazione del dolore. Ciò che sto per dire viene da mie personali riflessioni e non dovrebbe essere ritenuto di significato generale. Anche se i due sessi condividono lo stesso tipo di esperienza di dolore fisico o sentimentale che la vita porta loro attraverso incontri ed azioni, sembra comunque esserci una differenza fondamentale. Come uomini, cerchiamo il dolore nel conflitto: guerre e combattimenti – ed il livello di questi dolori acuti varia in proporzione all’ammontare dell’investimento. Per le donne però, il dolore ha una natura più cronica, principalmente a causa del ciclo mestruale. Il dolore è quindi parte del normale ciclo di vita, qualcosa non causato da un agente esterno ma che viene dall’interno del proprio corpo. Per gli uomini il dolore è per lo più una sorpresa o una sfida, mentre per le donne è mediamente percepito come “normale” ed inevitabile, essendo preventivato ogni mese.
Aikido è una buona scuola di dolore dato che sappiamo in anticipo che sta per arrivare: cadute, sforzi, immobilizzazioni forzate, ecc. Le sopportiamo volontariamente. Quando indossiamo il keikogi accettiamo implicitamente questi postulati, allo stesso modo in cui il pugile che sta indossando i guanti accetta che sarà colpito e sa che soffrirà.
Ho pensato molto all’accettazione del dolore. E’ il nostro partner che deve farci soffrire o siamo noi, attraverso il nostro investimento, che permettiamo al nostro partner di farci soffrire? L’Aikido ci insegna ad accettare il dolore. Sappiamo cosa sta per succedere e sappiamo in che momento il dolore arriverà. Non conosciamo il grado di intensità e la reazione che avremo in risposta ad esso con un partner particolare ed in ogni singola situazione. Infatti, si potrebbe dire che il tori rappresenta la parte femminile della pratica, che guida il dolore, mentre uke è la parte femminile, che sa che il dolore arriverà ma si fida sia del partner che delle proprie capacità di avere a che fare col dolore. Mi piace questo tipo di situazione ed il fatto noi si continui a scambiare ruolo ripetutamente, a volte come tori, a volte come uke.
Nonostante ciò, questa realizzazione è stata causa di alcuni problemi. In effetti, per me lo scopo della pratica è sempre stato diventare più forte attraverso tutte queste accettazioni. Intendo più forte in tutti i sensi, fisicamente, mentalmente e tecnicamente. Ma questa forza aveva l’effetto collaterale di rendermi meno sensibile a ciò che gli altri mi facevano provare, fino al punto che niente moteva più farmi del male. Ricordo di aver subito nikkyo per diversi minuti durante gli stage di Noro Sensei e le lunghe sessioni come uke di Asai Sensei. Quegli esercizi mi avevano permesso di costruire un fisico molto resistente ma che aveva perso tutta la sua sensibilità.
Quando arrivai a Tokyo, pensavo che solo quel tipo di allenamento mi avrebbe permesso di sostenere la pratica del terzo piano. Ovviamente mi sbagliavo. Senza sensibilità, senza sensazioni, nessuna progressione è possibile. Ci è voluto l’intervento di grandi maestri quali Seigo Yamaguchi e Christian Tissier per darmi una sveglia ed avvisarmi che se non avessi cambiato il mio approccio la pratica presto non avrebbe avuto più alcun senso. Quindi ho dovuto re-imparare a sentire, ad accettare che il mio corpo potesse provare dolore, ad accettare che non fosse perfetto. Sorprendentemente, una volta entrato in quella forma mentale, il mio corpo non diventò più debole, anzi si fece ancora più forte, ma allo stesso tempo flessibile e malleabile.
Per me l’Aikido è la scuola perfetta, che ci insegna a raggiungere certi limiti di sensibilità quando riceviamo una tecnica e di percezione quando siamo noi a muovere un partner. E’ importante che la nostra pratica rimanga morbida e costruttiva, così che il nostro partner si fidi di noi ed accetti di entrare nella difficoltà in modo da raggiungere la soglia di sensibilità (la sofferenza) che consentirà una migliore comprensione del potenziale del proprio corpo.
Philippe Gouttard è tra gli istruttori di più alto livello formati da Christian Tissier Shihan. Duro e senza compromessi, è circondato da un gruppo molto leale di studenti che apprezzano il suo approccio intenso e costruttivo all’Aikido. Philippe Gouttard è anche uno degli insegnanti francesi di Aikido che apprezza una forte connessione con lo Hombu Dojo. In tempi in cui nessuno perde l’occaisone di acquisire titoli e qualifiche o di cercare di mettersi sotto i riflettori durante una rara e breve visita in Giappone, così da costruirsi una immagine gonfiata di se stessi, Philippe Gouttard viene a Tokyo ogni anno per un mese intero e semplicemente si allena come qualunque altro praticante. E così ha fatto per 35 anni. Bisognerebbe solo verificare di persona il livello di stima da parte degli aikidoka di Tokyo, dal Sensei più avanzato al più umile principiante, per convincersi che si tratta di qualcosa di davvero speciale. Era ormai tempo di riavvolgere il nastro e cercare di capire cosa ha portato il Giappone alla pratica di Philippe Gouttard. (Guillaume Erard)