William Gleason, 6° dan Aikikai, ha studiato Aikido dal 1970 al 1980 presso l’Honbu Dojo dell’Aikikai di Tokyo anche con il Maestro Seigo Yamaguchi Shihan. E’ l’autore di “Aikido – Le Fondamenta Spirituali della Via dell’Armonia”. Il suo primo stage di Aikido in Europa è stato ospitato dal Sakitama Dojo di Roma nel 2008.
Nei suoi 10 anni in Giappone, William Gleason ha studiato principalmente con Yamaguchi, di cui anche i maestri francesi Christian Tissier e Philippe Gouttard sono stati allievi, come potete leggere sulle loro interviste in questo sito (nell’immagine in basso a destra, Seigo Yamaguchi con con Philippe Gouttard).
Lasciate che inizi il racconto dagli eventi che mi portarono a conoscere l’Aikido ed all’incontro con il mio primo maestro Seigo Yamaguchi… Verso la fine del 1960, dopo una soddisfacente carriera agonistica nella ginnastica, finii la scuola superiore (o sarebbe meglio dire che la scuola superiore ebbe finito con me). Ad ogni modo, mi lasciai alle spalle quella società in miniatura che pretenderebbe di essere un’accurata rappresentazione in scala del mondo esterno. Fortunatamente avevo amici universitari che facevano parte di una società bohemiana detta “Dinkytown” a Minneapolis e così cominciai calcare la scena musicale del campus universitario in un posto chiamato Ten O’Clock Scholar. La sera andavo a sentire Bob Zimmerman (Dylan), Dave Ray e Johnny Koerner, ed ero così ispirato dalla loro musica che diventai un chitarrista io stesso. Erano i tempi del folk/blues revival, quando gente come Big Joe Williams era tra i primi musicisti di colore ad avere il permesso di suonare nei campus. Era il tempo delle feste. La musica, così come il bere, durava spesso fino all’alba. Dopo che i caffè ed i bar avevano chiuso, i musicisti si incontravano in feste private, sistemavano i loro strumenti nelle stanze ed intrattenevano gratuitamente la gente fino alle prime ore del mattino. Io mi identificavo con loro e percepivo perfino una connessione spirituale con questi musicisti itineranti che vivevano a ruota libera e senza attaccamenti, suonando musica incantevole ispirata dalle loro esperienze e dalle loro vite difficili.
Una domenica pomeriggio ero a festeggiare con alcuni amici presso i giardini Eloise Butler di Minneapolis. Ci stavamo rilassando, passeggiando semplicemente sull’erba, quando all’improvviso provai un forte senso di chiarezza. In qualche modo percepivo che la mia coscienza stava cambiando. Sentivo una grande perfezione in tutto e che ognuno di noi era parte di essa, anche se non ce ne rendevamo conto. Ho interpretato questo cambiamento di sensibilità del mio modo di pensare come una vera esperienza spirituale.
“Scesi dalla montagna” e mi avviai verso il più vicino chiosco di A & W per una birra e un hot dog fritto nel burro. Dopo un morso lo gettai disgustato. Non era più adatto al mio nuovo modo di sentire. Da allora in poi, anche se continuai a suonare e a prendere parte alla scena musicale, mangiai solo vegetariano, correvo dieci miglia al giorno e meditavo ogni mattina e sera. Ero alla ricerca di una più profonda comprensione del mondo spirituale del Ki, anche se questa era una parola che non avevo ancora mai sentito.
A quel tempo, il posto dove “sfondare” nel campo della musica era Boston e così, nell’autunno del 1961, raccolsi le poche cose che avevo e partii per la East coast per una audizione al Club 47, nel campus di Harvard. Fui addirittura così fortunato da suonare da supporter prima di una esibizione di John Lee Hooker.
Sentendo che ero alla ricerca di qualcosa di più della musica, un musicista mi diede un sacchetto di riso integrale e mi parlò di una disciplina spirituale chiamata Macrobiotica. Mi consigliò di andare alla chiesa di Arlington ad ascoltare le lezioni di un giapponese dal nome Michio Kushi. Il signor Kushi era uno studente del compianto George Ohsawa (Sakurazawa Nyoichi), un caro amico di Morihei Ueshiba. I suoi discorsi mi ispirarono e mi gettai a capofitto nella via della Macrobiotica, studiando le diete, la filosofia/medicina orientale e “l’ordine dell’universo” secondo Kushi. Così abbandonai per sempre la musica (che in tutto durò non più di 3 o 4 anni) e alla fine cominciai io stesso ad insegnare Macrobiotica. A un certo punto arrivai pure a gestire uno studio di Macrobiotica a Brookline in Massachusetts. Comunque mi sentivo ancora a disagio e incompleto. Né il benessere fisico risultante dalla dieta, né la conoscenza della filosofia orientale affrontavano davvero il problema dello sviluppo e della realizzazione di se stessi. Poi un giorno, a Cambridge, nel Massachusetts, vidi un giapponese basso e robusto che si chiamava Mitsunari Kanai, che eseguiva delle tecniche di un’arte marziale chiamata Aikido. Fu un fulmine a ciel sereno. Era come la risposta ad una domanda che non avrei saputo chiedere; era poesia e filosofia in movimento. Anche se continuai cominque i miei studi di Macrobiotica, scoprii di essere sempre più attratto dall’Aikido. Poi avvenne finalmente il fatto risolutorio.
Un piccolo uomo venne da Kyoto in Giappone per tenere un seminario sulla Macrobiotica. Il suo nome era Takezo (Alcan) Yamaguchi. Mi parlò di suo fratello, che era un famoso maestro di Aikido a Tokyo. Alcan Yamaguchi mi scrisse una lettera di raccomandazione ed entro sei mesi mi ritrovai a San Francisco ad aspettare il mio visto per il Giappone. Sentivo che finalmente avevo trovato il tutto. Sarei andato in Giappone per tre anni, avrei imparato quell’incredibile arte per poi riportarla a coloro che cercavano di afferrare qualcosa della saggezza orientale. Allora non potevo immaginare quanto questa mia grandiosa fantasia mi avrebbe portato ad affrontare difficoltà altrettanto formidabili.
Quando arrivai in Giappone ero sicuro di aver trovato il paradiso spirituale, l’origine stessa. Andai in un piccolo parco e mi sedetti a contemplare quel posto incredibile. Il silenzio di quella nazione era assordante, come una corrente di energia irresistibile che non può essere percepita dall’udito, ma neanche evitata.
Quando finalmente arrivai a Tokyo, cominciai subito la ricerca di un lavoro come insegnante di inglese. Fui abbastanza fortunato da trovare un posto al Nichibei Kaiwa Gakuen (oggi l’International Education Center). Tramite Gary Peacock, un rinomato jazzista che conoscevo dai circoli di Macrobiotica, trovai una sistemazione presso una donna dal nome Hoashi che parlava anche inglese. Tutto era pronto per iniziare la mia meravigliosa avventura.
L’incontro con il Maestro Yamaguchi
Il Maestro Yamaguchi insegnava all’Honbu Dojo, il quartier generale dell’Aikido mondiale a Wakamatsu-cho nello Shinjuku e aveva anche un piccolo dojo a Ikenoue, a circa mezz’ora di treno dall’Honbu. Quest’ultimo era un grosso spazio (24 tatami) in una piccola casa di proprietà di una donna parzialmente cieca che viveva facendo massaggi shiatsu. Non si potevano fare cadute o praticare troppo duramente perché i tatami erano davvero molto più duri del solito. Una sera mi presentai all’ingresso del dojo di Ikenue con la mia lettera di raccomandazione. Il Maestro non era per nulla contento. Non aveva mai avuto un allievo straniero e non sembrava per nulla intenzionato a prenderne uno ora. Era un dojo per pochi scelti. Aveva un’atmosfera di segretezza, come se l’essenza dell’arte si potesse scoprire solo lì. Inoltre, sebbene il Maestro parlasse inglese, si rifiutava assolutamente di farlo. Mi parlava servendosi di un suo allievo come interprete. A peggiorare le cose c’era la completa ovvietà della mia arroganza. Credevo che i miei studi passati mi consentissero una comprensione dell’Aikido che pochi altri potevano avere. Per lui dovevo essere proprio una spina nel fianco. D’altro canto, si trovava nella situazione di non potermi proprio rifiutare, dato che ero accompagnato da un lettera di raccomandazione di suo fratello.
Avevo la brutta sensazione che la mia permanenza in quel dojo sarebbe stata davvero limitata. Il Maestro mostrava una tecnica e quando non capivo quello che diceva in giapponese perdeva completamente le staffe. Si alzava dall’angolo da cui di solito dava istruzioni seduto in abiti civili a fumare una sigaretta, saliva sul tatami e – sbam!, mi stendeva con un iriminage. Andavo a tappeto come un sasso buttato giù dal secondo piano. Era come per dire, “Scommetto che questo lo capisci!” Al contrario, sembrava trarre molto piacere della mia presenza quando una ragazzina con il 5° dan (io ero 6° kyu all’epoca) mi stendeva allo stesso modo. Cominciava così ufficialmente il mio difficile risveglio alla realtà dell’allenamento e della vita in Giappone.
Pochi mesi più tardi, alcuni dei suoi allievi mi avvicinarono dopo la lezione e mi chiesero di esercitarli privatamente con l’inglese. Ovviamente non potevo dire di no e così mi offrii di farlo per metà del prezzo di mercato. Il pomeriggio dopo, quando andai a lezione, il Maestro era furioso. Mi urlava contro che mi era permesso studiare lì solo per una circostanza speciale e che era intollerabile che io chiedessi soldi agli allievi. Le uniche parole giapponesi che riuscii a capire chiaramente furono “dete ike” (via di qui e non tornare). A nulla servirono le mie proteste e così la mia esperienza al dojo di Ikenoue ebbe bruscamente fine.
Pensavo che le mie possibilità di imparare l’Aikido fossero davvero svanite, ma dovevo continuare a provarci lo stesso. Mi iscrissi così all’Honbu Dojo e mi allenai lo stesso con il Maestro Yamaguchi il lunedì sera e il martedì mattina. Negli altri giorni ero comunque fortunato a seguire le lezioni di grandi istruttori come il Doshu, i Maestri Osawa, Saotome e molti altri. Furono esperienze di valore inestimabile per me e meriterebbero anch’esse di essere raccontate, ma me ne riservo di farlo in un’altra occasione.
Tramite le mie amicizie al dojo di Ikenoue, venni a sapere dell’allievo numero uno del Maestro Yamaguchi, il Maestro Takeda. Aveva il suo dojo a Kamakura, a circa un’ora a sud di Tokyo, e così cominciai a frequentarlo per studiare con lui nei fine settimana. Solo anni più tardi venni a sapere che il Maestro Yamaguchi stesso aveva chiesto a Takeda di accettarmi e seguirmi. Sembrerebbe che sotto la sua scorza dura alla fine si preoccupasse almeno un po’ di me.
Il Maestro Yamaguchi era molto severo e riteneva che fosse necessario rispettare la corretta etichetta in qualunque occasione. Di conseguenza, ciò significava che formalità non dovute o fuori posto sarebbero state per lui inaccettabili. Una volta arrivò ad un gasshuku sulle montagne a sud di Tokyo con l’intenzione di riposarsi, piuttosto che di insegnare. Anche il Maestro Takeda declinò, nonostante avesse organizzato lui il ritiro. Così per tre giorni giocammo a baseball. Soltanto il quarto giorno finalmente il Maestro Yamaguchi cominciò a tenere lezioni.
In un’altra occasione Michio Kushi venne in Giappone e si fermò al dojo di Ikenoue per una visita. Fece scorrere aprendola la porta dello shojo e, sedendo in seiza, fece un saluto formale. Yamaguchi gli urlò , “Che fai, il saluto a me? Sei una grande maestro, vieni a sedere qui così possiamo parlare!” Con Yamaguchi la tua etichetta non solo doveva essere corretta, ma anche appropriata per tutte le situazioni di spazio e tempo.
In ancora un’altra occasione presi parte ad un gasshuku dell’università. Cominciavamo la pratica alle 5 del mattino correndo su e giù per la montagna e facendo ginnastica calistenica prima della lezione mattutina. Per l’ora della colazione ero completamente morto di fame, ma comunque scartavo la carne del mio pasto. Yamaguchi mi chiedeva, “Perché non mangi la carne?” Rispondevo che mi rallentava e mi diminuiva la resistenza. Allora mi disse, “Oh, se ti fa questo allora si che non la devi mangiare!” Non aveva molta simpatia per gente che fa le cose per abitudine o per seguire le regole, piuttosto che in base all’esperienza o alla convinzione personale.
Per i due anni seguenti studiai con il Maestro Yamaguchi solo all’Honbu Dojo. Teneva tre lezioni di un’ora il lunedì sera ad un’altra ora il martedì mattina alle 6 e 30, dopo la lezione del Doshu (Kisshomaru Ueshiba – n.d.t.). Seguivo le lezioni del Doshu circa tre volte a settimana e seguivo altri maestri la mattina e la sera. Nei fine settimana prendevo il treno locale (Donkan) da Noborito, vicino alla mia stanza di 4 tatami e mezzo a Komai, e cambiavo treno fino a Kamakura. Ci volevano più di due ore per arrivare, ma facevo in tempo a seguire la lezione del mattino, dalle 9 a mezzogiorno. Negli anni seguenti, quando ripresi ad allenarmi di nuovo al dojo di Yamaguchi, continuai con questo allenamento domenicale. Pranzavo a Kamakura e rientravo in treno a Tokyo per allenarmi la sera a Shibuya col Maestro Yamaguchi.
In realtà fu rientrando da un grosso stage a Kamakura che, dopo le mie ripetute insistenze, il Maestro Yamaguchi si convinse e finalmente mi permise di ricominciare a studiare nel suo dojo. Ormai mi conosceva abbastanza bene da sapere che non sono un tipo che si arrende facilmente. Parlavo abbastanza bene il giapponese ed avevo ricevuto il grado di shodan dall’Honbu.
Poco dopo, per ragioni che non mi sono mai state spiegate, divenne necessario trovare un nuovo dojo per il Maestro Yamaguchi. Dopo qualche ricerca da parte degli allievi più anziani, finimmo per trasferirci in un dojo di un tempio di Shibuya, a Tokyo. Era fatto per la pratica del Kendo ed il pavimento in legno aveva più o meno le stesse caratteristiche di un campo da basket. Ovviamente a nessuno piaceva cadere sul legno, così la pratica era lenta e piuttosto sincera: se la tecnica non funzionava non ci si muoveva.
Così, dopo due anni turbolenti, stabilizzai la mia routine di allenamenti giornalieri all’Honbu, tre volte a settimana al dojo di Yamaguchi ed i fine settimana a Kamakura con il Maestro Takeda. Il dojo del Maestro Yamaguchi era il luogo della la ricerca meticolosa. All’Honbu cera lo spazio (ed il tatami) per praticare davvero i principi insegnati da Yamaguchi nel suo dojo privato. La pratica a Kamakura era incentrata nell’apprendere attraverso un gran numero di cadute e forse fu lì che cominciai a capire la realtà dell’hara per la prima volta. Più tardi negli anni, capii che le ripetizioni non sono sempre necessarie per rafforzare il Ki.
Dopo la lezione, il Maestro Takeda proiettava i suoi allievi finché non potevano più alzarsi in piedi. Ricordo abbastanza bene la sensazione. A prescindere da quanta adrenalina ti caricava, si arriva a un punto in cui i muscoli delle gambe non riescivano più ad alzarti in piedi, a supportarti o a farti muovere. Arrivai a subire le cadute quasi senza stancarmi, ma ad un certo punto cadevo e semplicemente non riuscivo più a rialzarmi.
Di solito insegnavo inglese per circa cinque ore al giorno. Dopo di che, dovevo correre per arrivare in tempo all’Honbu Dojo per la lezione delle 15. Quando arrivavo ero sempre sudato e non avevo bisogno di riscaldamento. Poi ammazzavamo il tempo in un caffè prima della lezione delle 17.30. Dalle 18.30 alle 19 la pratica era libera, poi c’era di nuovo lezione dalle 19 alle 20. Di solito a seguire c’era circa un’ora di pratica libera prima di andare a casa.
Molti, come me, dovevano prendere il treno per lunghi tratti e dovevano andar via prima che le corse finissero. Ogni sera c’era un insegnante diverso e molti erano 6° o 7° dan. Tra di essi c’erano i Maestri Osawa, Watanabe, Koichi Tohei, Saotome, Sasaki, il giovane e promettente Endo, il Doshu e molti altri. Tra i tre dojo in cui mi allenavo totalizzavo una media di 20 ore di allenamento a settimana durante i 10 anni che ho vissuto in Giappone.
All’Honbu Dojo le lezioni del Maestro Yamaguchi erano le più seguite. Era facile che ci fossero ottanta persone o più nella lezione serale. Non c’erano solo gli allievi giapponesi a seguirlo; il Maestro Yamaguchi aveva un grosso seguito di studenti stranieri. I francesi erano la maggioranza e, come me, sembrava che fossero sempre lì, tornando al loro paese solo poche settimane l’anno.
C’era gente dalla Bolivia ed altri paesi del Sud America, da Russia, Spagna, Germania e Stati Uniti. Molti americani non reggevano più di sei mesi. L’allenamento all’Honbu a quel tempo richiedeva una grande dedizione ed una certa dose di altruismo e chi non era in qualche modo eccentrico o motivato spesso non ce la faceva.
Gli insegnanti dell’Honbu non avevano l’abitudine di seguire le lezioni degli altri, eppure qualcuno di essi seguiva il Maestro Yamaguchi con una certa regolarità. Il primo e più importante era il Maestro Saotome, allora già riconosciuto come uno dei maggiori insegnanti, anche se più giovane della maggior parte degli allievi di seconda generazione del fondatore. Anche il Maestro Chiba ed il suo allievo Shibata seguivano le lezioni di Yamaguchi. A Shibata non sembrava piacere molto il modo in cui il Maestro Yamaguchi lo proiettava, ma allo stesso tempo era attratto dal mistero di come la cosa potesse avvenire.
I movimenti del Maestro Yamaguchi erano spesso così veloci che anche gl iinsegnanti di alto livello avevano problemi a stargli dietro con le cadute. Ho assistito personalmente mentre il Maestro Yamaguchi proiettava gente come i Maestri Yamada, Chiba, Sasaki e naturalmente Saotome. Anche solo guardare era piuttosto impressionante ed ebbi modo di imparare qualcosa su un grado di intensità che non conosciamo nella pratica odierna.
Sebbene avessi l’opportunità di essere proiettato spesso dal Maestro Yamaguchi nel suo dojo, non avevo molte posibilità all’Honbu a causa dell’alto numero di studenti. Il Maestro aveva due o tre allievi all’Honbu che subivano il 90 percento delle cadute. Il più importante era Yasuno, che era il mio senpai anche prima che entrasse all’Honbu. Aveva studiato con Yamaguchi fin dai tempi della scuola superiore ed era molto forte e flessibile.
https://www.youtube.com/watch?v=e2NoPPjYtKo
Yasuno e Yamaguchi all’Honbu Dojo nel 1973
Dal mio canto, desideravo molto essere proiettato a quella velocità da Yamaguchi all’Honbu e cercavo di essere più attento possibile. Sono sicuro che il Maestro se ne fosse accorto mentre girava per il tatami a mostrare le tecniche. Appena la mia attenzione veniva meno lui mi chiamava con un gesto. Saltavo in piedi e lo attaccavo come se la mia vita dipendesse da questo, ma essendo sempre preso di sorpresa, non riuscivo a fare nient’altro che rendermi ridicolo. Immagino che fosse tutto parte dell’insegnamento di Yamaguchi: devi sempre essere attento e pronto.
Ho preso tutti i miei gradi dan all’Honbu Dojo. Volevo riceverli direttamente dal Maestro Yamaguchi ma lui insisteva che la cosa avvenisse formalmente attraverso l’Aikikai. Può darsi che lui pensasse ad un mio prossimo futuro, eppure sembra che avesse sempre voluto mantenere la memoria e l’eredità di O-Sensei come prima cosa in assoluto. A causa della sua abilità e popolarita sia tra gli studenti giapponesi che tra quelli stranieri, molti pensavano che il Maestro Yamaguchi avrebbe prima o poi creato una sua scuola di Aikido, ma non ne ha mai avuto alcuna intenzione. Era molto contrario all’idea del potere personale e credeva che tutti avrebbero dovuto lavorare insieme anche se avevano opinioni diverse.
Non mi permetteva di essere duro con i miei allievi giovani o tenero con quelli più forti di me. Essendo uno straniero, c’erano diversi “uchi deshi” giapponesi che si sentivano in dovere di mettermi al mio posto. In più di una occasione, qualcuno si è arrogato il diritto di prendersela con me dandomi una severa lezione. Alcuni usavano il trucco di invitarmi gentilmente a salire sul tatami per sbattermi a terra all’ultimo momento. Non mi piaceva particolarmente lavorare con queste persone, eppure il Maestro Yamaguchi insisteva che non facessi distinzioni. “Vuol dire che hai davvero bisogno di praticare con quella persona”, mi diceva. Una volta, stavo lavorando con una giovane ragazza e sembra che io l’avessi portata a terra troppo duramente con un iriminage. Yamaguchi urlò ed un centinaio di persone all’improvviso si fermarono e si misero in seiza. Spiegò a tutti il mio errore. Come mi sentii piccolo…
Al dojo di Shibuya, quando il keiko serale era terminato, tutti ci cambiavamo per sederci ad ascoltare il Maestro Yamaguchi. A volte, se stimolati a sufficienza, alcuni studenti si univano alla conversazione con lui, ma per lo più ci limitavamo tutti ad ascoltare. Se si entrava nella conversazione lo si faceva con molta attenzione. Se dicevi qualche stupidaggine il Maestro Yamaguchi si faceva una bella risata a tue spese. Era un uomo di grande esperienza e cultura ed aveva molto da dire su qualunque argomento. A volte parlava per più di un’ora e molti allievi erano costretti a scusarsi educatamente ed andare via. A quel punto Yamaguchi si alzava e tutti noi lentamente ci avviavamo verso l’uscita del dojo facendo attenzione che gli studenti più anziani fossero i primi ad uscire dopo il Maestro.
Il Maestro Yamaguchi non ammetteva un keiko duro (ranbo na). Insisteva che gli allievi si liberassero della rigidità del corpo e che lavorassero sull’estetica e l’efficacia solo attraverso i principi e la tecnica. Insegnava che la potenza è necessaria ma deve essere totale, con muscoli, mente e Ki che lavorano all’unisono.
Durante la lezione non spiegava molto della tecnica, ma lavorava di persona con ogni studente. Dopo la lezione amava andare a gustare un caffè, fumare una sigaretta e fare quattro chiacchiere. Diventava così interessato alla conversazione che non smetteva più. Era in quei momenti mi appariva chiaro quanto gli piacesse stare con gli altri.
https://www.youtube.com/watch?v=w8JuC2ADnGc
Ricordo di un’occasione poco prima che me ne andassi dal Giappone. Eravamo in un caffè ed uno studente mi chiese cosa avrei fatto dopo il mio ritorno in America. Dissi che mi sarebbe piaciuto insegnare Aikido. Il Maestro Yamaguchi intervenne, “Ti piacerebbe insegnare Aikido? E allora insegnerai Aikido!” A dispetto dei molti rimproveri che avevo ricevuto in tutti quegli anni, sembrava davvero che avesse condiviso il mio sogno fin dall’inizio. Il Maestro era fatto così. Era duro con gli studenti più dotati od eccessivamente entusiasti, e molto amichevole con quelli meno scrupolosi. A volte proiettava il Maestro Takeda con molta durezza e poi si allontanava come a dire, “Niente di che, dopo tutto”. Era difficile da accettare per qualcuno che era già riconosciuto come un Maestro di alto livello, ma poi Takeda ammetteva, “Il Maestro Yamaguchi è un uomo di grande forza spirituale”.
Ogni tanto gli studenti di Yamaguchi andavano in America e cercavano di insegnare col metodo del Maestro Yamaguchi. La sera, dopo la pratica, egli leggeva ridendo le lettere in cui inevitabilmente gli raccontavano di come fosse impossibile insegnare il suo Aikido. Nessuno riusciva a capire o ad essere in accordo con le sue tecniche che sembravano fluire senza sforzo. Questa in realtà non era una sorpresa. Anche i grandi maestri dell’Honbu Dojo non riuscivano a capire come il Maestro Yamaguchi fosse capace di fare senza sforzo quello che faceva. Essere proiettato da lui era un’esperienza poco desiderabile. Il suo tocco era leggero come una piuma, eppure ci si ritrovava per aria come se si fosse stati colpiti da un tornado, per cadere poi a tappeto come un sacco di patate.
E’ davvero un peccato che non ci sia molta documentazione sul suo Aikido. Egli era, agli occhi della maggior parte degli shihan della seconda generazione, un genio del Budo. Fu un artista, ma anche un filosofo ed uomo dalle profonde convinzioni. Non seguiva nessun credo religioso particolare, ma studiava Lao Tsu e la filosofia dello Yin e Yang. Il suo amore per la spada, insieme alla sua visione del mondo e alla sua filosofia, sembravano essere alla base del suo particolare intelletto e della sua tecnica precisa. Osservando il suo Aikido si poteva chiaramente vedere la precisione e la bellezza della spada. Non poneva troppa enfasi nelle ripetizioni, ma sosteneva che bisogna essere nel centro e nel momento giusto in ogni singolo movimento, come se fosse la sola cosa che conta.
Nel dojo il Maestro Yamaguchi sembrava sempre un gigante. Il suo Ki sembrava estendersi dappertutto. Quando saliva sul tatami portava con se un’innegabile autorità che non aveva niente a che fare con il suo grado o con la sua posizione. La sua autorità veniva dalla conoscenza di se stesso e dalla sua mancanza di presunzione. Nella strada, in abiti civili, era un uomo abbastanza normale. Portava vestiti larghi e comodi e non sembrava diverso da altri. Era alto poco meno di 1,70 m e pesava solo 61 kg. Sembra piuttosto stupefacente dato che l’ho visto proiettare uno studente di sumo.
Quando camminava per strada sembrava molto attento, ma completamente rilassato. Le sue braccia erano sciolte ai suoi fianchi e camminava come se pesassero una tonnellata ciascuna. I suoi occhi, uno dei quali era sempre più chiuso dell’altro, ti osservavano con grande intensità. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro e che sembrava contenere lo stesso Ki espanso così ovvio nelle sue tecniche di Aikido. Quando ciò accadeva esprimeva chiaramente compassione e calda sensibilità, a dispetto della sua usuale severità.
Il Maestro era spesso circondato dai suoi allievi più devoti e sembrava esserne molto contento. Chi gli era più vicino lo amava sinceramente. Ad esempio, anche un grande maestro di Aikido in Giappone non fa molti soldi e sbarca il lunario tra molte difficoltà. Alla fine dell’anno era costume tra i suoi studenti fare una colletta e portargli un po’ di denaro pr aiutarlo con le spese per l’anno a venire. Era come se volessero dirgli, “Per favore, stia bene e continui ad insegnarci anche l’anno prossimo”.
Duranti i miei ultimi tre anni in Giappone mi trasferii al dojo di Kamakura per potermi godere la bellezza di quel posto. Così il mio pendolarismo per lavoro e keiko invertì direzione da Kamakura a Tokyo. Ogni anno minacciavo di tornare in America ed ogni anno gli allievi del dojo di Kamakura coglievano l’occasione per organizzarmi una festa d’addio. Diventò una barzelletta perché ogni volta cambiavo idea e rimanevo un altro anno. Alla fine sono rimasto in Giappone per dieci anni senza andar via neanche una volta. Questa probabilmente non fu una buona idea, dato che sono andato abbastanza fuori di testa e al giorno d’oggi non mi sono ancora completamente ripreso. Ad ogni modo, alla fine dovetti affrontare il dilemma di restare o meno in Giappone per il resto della mia vita. Mi trovavo abbastanza bene ormai, studiavo Aikido con i migliori del mondo, me lacavavo abbastanza bene insegnando inglese e vivevo nell’ambiente confotevole ed affascinante di Kamakura. Se non me ne fossi andato al più presto sarei rimasto per sempre ed il mio sogno di passare ad altri gli insegnamenti che mi avevano dato sarebbe svanito. Così alla fine, dopo dieci anni, decisi di rientrare.
William Gleason nel suo dojo nei pressi di Boston
Ho aperto il mio dojo a Brookline in Massachusetts ed ho sempre insegnato là. In diverse occasioni tra il 1980 ed il 1990 sono tornato in Giappone a trovare il Maestro Yamaguchi, ma poi diventò sempre più difficile tornare. Gli anni passarono e verso la fine del gennaio 1996 venni a sapere che il Maestro Yamaguchi si era improvvisamente spento nel sonno. Fu un grosso shock per tutti quelli che lo conoscevano. A quasi settant’anni era ancora incredibilmente giovanile. I suoi capelli erano ancora di un nero corvino e si muoveva come un trentenne. Yamaguchi non era mai stato uno che mangiava molto, sebbene fosse molto esigente nella sua dieta. Prendeva solo una birra in rare occasioni, quando voleva socializzare. Beveva caffè, fumava sigarette e parlava così tanto che credo passasse il giorno scordandosi proprio di mangiare. Sembra che in tutti quegli anni queste abitudini gli avessero procurato un’ulcera intestinale. Il suo medico gli aveva consigliato di curarla dicendo che se l’avesse fatto avrebbe potuto vivere attivamente per altri venti anni.
Il Maestro Yamaguchi comunque era un uomo che credeva fortemente all’ordine naturale delle cose. Decise che magari si sarebbe potuto curare da solo. Mi fu detto che la sera prima di morire prese parte ad una dimostrazione di Aikido e la concluse con un attacco di tre uomini. Non era niente di strano per il Maestro, ma sembra che poi avesse difficoltà nel respiro e non si sentisse troppo bene. Rifiutando un passaggio, disse che sarebbe andato a casa a piedi e scomparve nella notte. Morì nel sonno il 24 gennaio per una emorragia interna.
Quando seppi della morte del Maestro Yamaguchi sentii un vuoto dentro. Mi aveva dato così tanto. Non solo mi aveva insegnato Aikido, ma anche una certa sincerità, integrità e rispetto per la vita. Sotto molti punti di vista era per me più come un padre che un maestro. Mi ha lasciato una visione ed un sogno che inseguo ancora oggi: la continua ricerca nell’Aikido e le sue molteplici applicazioni nella vita di tutti i giorni.
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Pubblicato per gentile concessione dell’autore.
Versione originale in inglese pubblicata su Aikido Journal
Traduzione di Pasquale Robustini