Per essere novembre inoltrato era una giornata piuttosto calda. Noi ragazzi e bambini giocavamo all’aperto, in cortile e nelle campagne circostanti. Era una splendida domenica d’autunno, soleggiata e fresca, ma non troppo. Nel pomeriggio ci fu la classica partitella di pallone in cortile. Il leggendario Super Santos era finito in un balcone del 2° piano e uno di noi aveva scavalcato dalla finestra delle scale per andarlo a recuperare, correndo un rischio che oggi, da genitore, mi farebbe accapponare la pelle. Ma nel tempo lo avevamo fatto un po’ tutti a turno: il cortile era circondato da balconi e terrazzi al piano terra, era inevitabile che il pallone finisse in uno di essi. A volte citofonavamo al proprietario per chiedere il favore di restituircelo, ma dato che spesso il pallone veniva sequestrato, o peggio tagliato in due con le forbici in un rito solenne a cui ci facevano assistere spietatamente, ci prendevamo il rischio di scavalcare prima che il proprietario se ne accorgesse. Quando andava male ricorrevamo ad un disperata colletta e correvamo a comprarne un’altro. In pratica rischiavamo una violazione di domicilio per evitare una appropriazione indebita. Ma quella domenica pomeriggio del 30 novembre 1980 il pallone era finito nel balcone di un nostro amico che non abitava più lì, l’appartamento del 2° piano era disabitato. Così qualcuno dovette andare a recuperarlo nonostante i circa 6 m di altezza…
Dal 1975 la mia famiglia, originaria del Molise, si era trasferita da Roma a Campobasso, capoluogo a 700 m di quota e a 75 km dalla costa adriatica, nel cuore dell’Appennino centrale, un’area ad alto rischio sismico. Gli inverni erano rigidi e ricchi di nevicate. Era bello svegliarsi accorgendosi di uno strano silenzio. I rumori vengono attutiti dalla neve e quindi una strana sensazione ti preavvisava che alzando le serrande avresti potuto trovare una bella sorpresa: spesso la neve era così abbondante da impedirci di andare a scuola. Era quella più che altro la nostra speranza. Ma quel novembre era stato molto bello, di neve non se ne sarebbe parlato ancora per un po’ ed eravamo felici di poter giocare all’aperto grazie a quella bella giornata di sole.
Dopo la partita di pallone abbiamo scorazzato un po’ per i campi adiacenti ai quattro palazzi che racchiudevano il nostro mitico cortile. Erano stati costruiti alla fine di una strada che diramava dall’arteria principale della città abbastanza più a nord del centro. All’epoca erano gli ultimi palazzi, ancora circondati dal verde. Poi l’urbanizzazione è andata avanti e i campi in cui giocavamo non esistono più. Ci sono altri palazzi e anche un campo di calcetto: non è più necessario disturbare la quiete del cortile. I ragazzi non giocano più lì, il cortile e silenzioso oggi, in un modo inimmaginabile negli anni 70. Ma bambini e ragazzi oggi sono di meno e non giocano all’aperto, preferiscono computer e console dentro casa. Per le attività ci sono palestre e campi sportivi. Ma questo è un altro discorso…
Il “boschetto” è ancora lì. Era abbastanza distante dal cortile da non essere ancora stato coinvolto dall’urbanizzazione. Appena prima del punto di ingresso al boschetto c’era un albero solitario su cui ci arrampicavamo emulando le acrobazie dei supereroi di cui leggevamo i fumetti o che avevamo inventato noi stessi di sana pianta. Il boschetto costeggia la ferrovia subito dopo i palazzi del cortile ed uno spazio verde piuttosto vasto, anch’esso oggi urbanizzato. Qualche anno prima si poteva vedere ancora una locomotiva a vapore che lentamente copriva i km da o verso la costa, sulla linea per Termoli, il porto del Molise. Per quello che oggi potrebbe essere un orrore per noi genitori odierni, noi giocavamo anche sui binari, mettendovi sopra furtivamente chiodi o monetine scappando poi ad attendere che passasse il treno e raccoglierli appiattiti.
Tra primavera ed estate la campagna tra i nostri palazzi e il boschetto era costellata di balle di fieno con le quali giocavamo smantellandone alcune per avere a disposizione un fondo morbido nel quale saltare da altre balle di fieno accatastate (per la felicità del contadino, immagino). Il percorso per attraversare i campi che portavano al boschetto cominciava immediatamente alla fine della strada asfaltata, accanto ai palazzi del cortile. La strada sterrata scendeva per poi risalire immediatamente e sparire tra i campi. In quel tratto di discesa e risalita era affiancato da un muro in cemento spesso meno di un metro e alto… non saprei ma sicuramente ben più di noi, specialmente dal lato opposto alla strada. Percorrendolo si annullava il dislivello perché si rimaneva alla quota della strada fino ai campi. A volte ci sedevamo su di esso a chiacchierare o suonare la chitarra; altre volte lo percorrevamo di corsa …o in bicicletta! Altra cosa che terrorizzerebbe noi stessi, genitori di oggi: ci sfidavamo a saltare dal muro alla strada sterrata nel punto più alto che avevamo il coraggio di affrontare, confidando nella morbidezza del materiale di riporto alla base del muro.
Nel tardo pomeriggio io e mia sorella ci addentrammo nel boschetto con qualche amico e amica per fare una passeggiata fino “all’albero della morte”, un albero secco al centro di una piccola radura. Nelle sere d’estate a volte ci sfidavamo spingerci fin lì con una torcia elettrica, mai da soli, almeno in coppia, ma al primo rumore nella boscaglia filavamo via terrorizzati – ridendo a crepapelle. Quella sera, dopo il tramonto, rientrati in cortile, inventammo storie di fantascienza che ci vedevano protagonisti nell’esplorazione di Giove. Cominciava a rinfrescare e alla fine ci siamo salutati per rientrare ognuno nelle proprie case. L’idea di avere tutti gli amici così vicini anche durante la notte, ognuno nelle proprie case ma accomunati nell’abbraccio di quel cortile, il teatro dei nostri giochi diurni, era qualcosa che dava calore, faceva sentire un’ulteriore senso di protezione e sicurezza oltre a quello della propria famiglia. Con alcuni amici bastava affacciarci dalla finestra per riprendere il contatto e scambiare due battute o quattro chiacchiere. Noi eravamo al terzo piano di uno dei 4 palazzi del cortile. Al piano sopra il nostro c’erano altri nostri amici. Quella sera mia sorella e la sua amica del piano di sopra avevano deciso di preparare una crema. Verso le 19 siamo saliti al 4° piano da loro.
Mentre mia sorella e le amiche preparavano la crema in cucina io e loro fratello ascoltavamo dischi in soggiorno. Stava suonando il secondo lato dell’album Viva, dei Pooh, uscito l’anno prima. eravamo alla seconda traccia, “Così ti Vorrei” quando il mio amico mi fa notare che le foglie di una pianta del loro salone si stavano muovendo. Mi rendo conto che anche la parete della stanza si stava muovendo, e molto rapidamente. Violentemente direi. Poggiai una mano sulla parete. L’oscillazione era impressionante. Tutto l’appartamento vibrava paurosamente e realizzai cosa stava succedendo. Urlai a gran voce alle ragazze che erano in cucina “Il terremoto! Scappiamo!” Aprendo la porta trovammo il padre dei nostri amici stava cercando disperatamente di inserire la chiave nella serratura che non stava mai ferma. Ci intimò di rimanere sotto la porta, nessuno avrebbe dovuto usare le scale durante la scossa. Io invece feci una corsa al giradischi per sollevare la puntina. Qualcosa, forse il geologo in embrione dentro di me (o forse un’incoscienza audiofila), mi diceva che non sarebbe crollato tutto e rischiai di farmi male per salvare la testina ed il disco del mio amico. Tremava tutto e per alcuni attimi andò via la luce. Nel buio mia madre urlava disperata dal nostro uscio al piano di sotto. Tornata la luce e terminati gli scuotimenti il papà dei nostri amici ci diede il via per la fuga. Per sbloccare mia madre presa dal panico dovette mollargli una sberla. Uscito dal portone notai i fiumi di gente che dagli altri portoni si riversavano correndo nel cortile per confluire vero la breve rampa di scale che scendeva al piano strada. Ci rifugiammo nei campi, infreddoliti e spaventati, adulti e bambini. Chi piangeva, chi urlava che non voleva morire, come mia madre e mia nonna paterna che si abbracciavano. Io mantenevo la mia solita calma, da futuro scienziato. Passato il panico iniziale fummo ospitati da conoscenti del palazzo accanto che vivevano al piano terra, da cui è più rapida la fuga in caso di eventuale replica. Mentre noi ragazzi e bambini eravamo distesi su delle coperte lungo il corridoio, vicini all’ingresso, nel vano tentativo dei vari genitori di farci dormire un po’, cominciavano ad arrivare le notizie alla TV di un epicentro in Campania, nella vicina Irpinia. Paesi cancellati, danni anche a Napoli. Il Molise sembrava riportare al massimo qualche crollo di cornicione. Dopo qualche ora rientrammo tutti nelle nostre case con l’ordine di rimanere vestiti sui letti e senza infilarsi sotto le coperte per una fuga più rapida. Verso l’1:30 percepii appena il mio letto oscillare ma sentii benissimo le urla dal piano di sopra “Il terremoto! Noooo!”. Tutti via all’aperto una seconda volta. Si ripeterono le stesse scene di folle che fluiscono di corsa fuori dai portoni. Stavolta qualcuno accese fuochi con pneumatici nelle campagne. Decidemmo di passare la notte nelle macchine, a distanza di sicurezza dai palazzi. Dormii qualche ora sul sedile posteriore della nostra Ford Escort con l’amico del piano di sopra e i nostri due papà sui sedili di fronte. Le donne si sistemarono nell’auto dell’altra famiglia.
Il giorno dopo le dimensioni della tragedia apparivano chiare. La realtà di certe zone del sud Italia è fatta di gente che si costruisce casa da sola dopo grandi sacrifici. Altro che criteri antisismici. Una scossa di magnitudo 6,9 come quella spazza via case fatte con mattoni uno sull’altro. A noi era andata bene, anzi benissimo. Una storia del cortile in più da raccontare. A scuola il professore di fisica ci spiegò il meccanismo di un terremoto, cosa fosse una faglia. Non potevo immaginare che qualche anno dopo mi sarei iscritto a Geologia e i terremoti sarebbero diventati per me un argomento familiare.
Il miglior professore che io abbia mai avuto a scuola ci disse che le faglie sono delle spaccature della roccia i cui due lati si muovono uno rispetto all’altro. Il movimento è impedito dalle naturali asperità della roccia lungo la superficie della faglia. Così l’energia si accumula nel tempo fino a che non è tale da rompere le asperità e far scattare il movimento lungo la faglia generando un terremoto. Alla luce dei miei studi universitari di qualche anno dopo era una descrizione impeccabile per studenti di scuola superiore.
All’università avrei imparato qualcosa di più su faglie e terremoti. L’Italia è lungo il margine fra la placca euroasiatica e quella africana; questo margine è complicato dalla presenza della microplacca adriatica che è più o meno la ragione per cui la penisola italiana è allineata in direzione nordovest-sudest mentre la spinta tra le due placche è in direzione nord-sud. L’Appennino è messo di traverso invece. La spinta tettonica che lo ha generato ha fatto traslare e accumulare i sedimenti del margine nord africano verso nordest, verso l’Adriatico (vedi immagine in basso). Due continenti che muovono uno verso l’altro generano un compressione dei sedimenti accumulati ai loro margini. Questi deformandosi in pieghe, e faglie che generano terremoti, vengono accatastati in grossi spessori fino a formare catene montuose.
Analizzando i sismogrammi è possibile capire il tipo di movimento di una faglia e la sua orientazione anche se è sepolta. Si può anche stimare l’area della superficie di una faglia coinvolta nel movimento (in genere più è ampia e più è grande il terremoto). Fino al terremoto del 1980 si pensava che la maggior parte della sismicità della catena appenninica fosse dovuta alla compressione che ha formato la catena appenninica. Invece il terremoto dell’Irpinia fu dovuto al processo inverso, all’estensione. Si può immaginare che una catena montuosa, una volta sollevata (o mentre si solleva) a causa della compressione tra due placche convergenti, si assesti anche sul suo stesso peso generando dei processi distensivi nella crosta, la causa maggiore dei terremoti centro appenninici. In altre parole, la compressione è oggi concentrata verso l’Adriatico; il centro dell’Appennino ed il versante tirrenico sono in estensione, tanto che in quest’ultimo esiste vulcanismo in parte ancora attivo (l’estensione apre fratture attraverso le quali il magma può risalire).
In particolare, ci si rese conto che il terremoto di magnitudo Mw = 6,9 era in realtà il risultato del movimento su tre faglie adiacenti scattate una dopo l’altra in meno di un minuto alla profondità di 15 km. Anni dopo si scoprì come queste successioni di terremoti possono avvenire anche nell’arco di ore o giorni: spesso i terremoti successivi, se sono di grandezza inferiore, vengono interpretati come repliche. Si tratta invece di veri e propri terremoti principali: la scossa principale, più forte, è dovuta al cedimento delle asperità che bloccano i due lati della faglia che dovrebbero muoversi. Sia prima, ma soprattutto dopo la scossa liberatoria principale, altri settori della porzione di faglia che si è finalmente mossa si “assestano” muovendosi anch’essi per “aggiustamento” alla nuova situazione appena creatasi. Dato che sono scosse minori che avvengono sempre dopo, vengono anche chiamate repliche. Ma spesso l’evento sismico è dato da una rapida successione di movimenti principali su più piani di faglia vicinissimi tra loro. Non si tratta di repliche ma di singoli terremoti terremoti in rapida successione nella stessa area epicentrale. A volte “rapida” può significare “a distanza di qualche giorno”: nel 1997, in occasione del terremoto dell’Umbria, alcuni geofisici ebbero addirittura guai giudiziari per aver dichiarato che l’evento principale era ormai avvenuto e ci sarebbero state solo repliche di magnitudo decisamente inferiori; invece ci fu un altro terremoto di entità paragonabile dopo 9 ore nello stesso epicentro. In altri casi si può trattare di giorni o mesi. Prevederlo è impossibile. Bisogna costruire in odo da evitare danni.
Mi chiedo se abbiamo imparato qualcos’altro però da quella tragedia. E’ normale che la penisola italiana sia investita da scosse di quella entità prima o poi. Parecchi anni dopo le tragedie si sono ripetute, L’Aquila, Amatrice…. l’Italia è fatta di centri storici antichi e metterli in sicurezza è un lavoro lungo e dispendioso. Ci sta lavorando qualcuno? Non credo… Aspettiamo la prossima scossa.