Da qualche tempo alcuni movimenti popolari ed organizzazioni territoriali hanno manifestato preoccupazione che i terremoti possano essere provocati dalle attività di estrazione di idrocarburi nei pressi di zone sismiche. In particolare, dopo il terremoto dell’Emilia del maggio 2012, molti si sono scatenati contro le attività estrattive della zona, additandole come possibili cause del terremoto che aveva provocato ingenti danni e diverse vittime. Come geologo inorridisco di fronte a queste idee e soprattutto non riesco ad immaginare come si possa accusare attività così superficiali di aver provocato crolli di edifici e strutture che erano state costruite senza rispettare i dovuti criteri sismici. Il dato di fatto più triste è che terremoti della stessa entità di quello dell’Emilia del 2012, ma anche di quello dell’Aquila del 2006, non avrebbero neanche fatto notizia in altri luoghi del pianeta dove, conoscendo bene la sismicità del territorio, si costruisce in modo che le strutture resistano. E la sismicità del territorio è ben nota anche da noi. Solo che basta un terremoto tutto sommato “piccolo” a creare tragedie, quando nel resto del mondo industrializzato questi terremoti a stento si notano. Ma qui non si parla di aver costruito male. No. Sono stati i “petrolieri”…
Devo dire che sono rimasto alquanto meravigliato quando le autorità locali, in primis la Regione Emilia Romagna, hanno pensato di assegnare a commissioni di esperti indagini sui possibili effetti delle attività estrattive sulla sismicità locale. Come geologo ero abituato a pensare ai terremoti come fenomeni naturali, presenti anche nella Pianura Padana da ben prima dell’uomo, figuriamoci delle sue attività. Posso però facilmente immaginare come il cittadino medio (e non), specialmente in Italia poco erudito in fatto di materie scientifiche, possa facilmente impressionarsi nel pensare che qualcuno si metta a perforare su una faglia che potrebbe scattare violentemente da un momento all’altro. Il cittadino medio, purtroppo, cosa sia una faglia non lo sa, non sa nemmeno cosa sia davvero un terremoto, ma neanche un giacimento di idrocarburi o un acquifero e tanto meno cosa sia un pozzo per la ricerca di idrocarburi, tanto che questi vengono normalmente chiamati “trivelle”…
Trova le | differenze: |
Trivella | Pozzo per idrocarburi |
Nota: | Sono anch’io No Triv – mai mi sognerei di andare a cercare idrocarburi con una trivella! |
Cominciamo dal terremoto. La superficie del nostro pianeta è formata da numerose placche che si muovono l’una rispetto all’altra “galleggiando” (si fa per dire) su un materiale che normalmente ci sembrerebbe solido, ma per movimenti molto lenti, paragonabili alla crescita delle unghie, può comportarsi in modo fluido, esattamente come se fosse acqua su cui galleggi del ghiaccio o del legno. E’ inevitabile che l’interazione lungo i margini delle placche, degli enormi, incommensurabili ammassi di rocce, un po’ di “rumore” lo faccia: ed ecco vulcani e terremoti (e spesso catene montuose). Un terremoto avviene quando una roccia si spacca e una parte scorre sull’altra lungo un piano di scorrimento che noi geologi chiamiamo faglia. Sono i movimenti delle placche a causare lungo i loro margini le deformazioni che portano alla rottura delle rocce di cui sono fatte. E’ un fenomeno naturale che coinvolge forze inimmaginabili. Personalmente non mi è mai passato per la testa che un piccolo pozzo petrolifero o a gas potesse fare a queste masse poco più che un solletico. Lo spessore di una placca litosferica si aggira attorno ai 100-200 km; l’attività estrattiva perfora fino a migliaia, ma non decine di migliaia di metri di profondità. I pozzi più profondi mai perforati superano di poco i 12 km e si contano sulle dita di una mano.
Cosa succede quando si muove una faglia? Immaginate un libro su un tavolo. Se voglio spostarlo facendolo scorrere lungo la superficie del tavolo mi basta spingerlo un po’ orizzontalmente. Se pensiamo alla superficie di contatto tra tavolo e libro come ad una faglia, dobbiamo tenere conto che essa è sepolta in profondità e quindi c’è anche un peso su di essa non indifferente. Proviamo a immaginare di spingere con un dito in verticale sul libro: nessun movimento, ovviamente; ma se inclinassi il dito progressivamente, ad un certo punto riuscirei a farlo scivolare sul tavolo perché la forza che prima era solo verticale ha acquisito via via anche una componente orizzontale (figura a lato). Il libro riesce a muoversi quando il rapporto tra la forza verticale e quella orizzontale è quello giusto, quello che fa superare l’attrito tra libro e tavolo e lo fa muovere. Il fatto è espresso dalla formula
τ = tan Φ(σn – P)
Dove τ è la componente della forza parallela al tavolo (detto sforzo di taglio) e σn è la componente verticale; Φ indica l’angolo di inclinazione della spinta che stiamo esercitando e P è la pressione dei fluidi (n natura ci sono spesso anche i fluidi nella roccia). Di solito si tratta di acqua, ma a volte anche di olio e/o gas, derivati dalla decomposizione della materia organica contenuta nei sedimenti che si depositavano, poi trasformatisi in roccia. I fluidi occupano i pori della roccia, esattamente come fa una spugna imbevuta di un qualunque liquido. Così è per gli acquiferi e per i giacimenti di idrocarburi: nessun lago sepolto, nessuna caverna inondata, nessuna cavità riempita di gas come fosse una bombola: solo volumi di roccia impregnati.
Torniamo al tavolo sul libro: se ci fosse acqua, o meglio ancora olio, sulla superficie di contatto (come spesso accade in natura), lo scorrimento sarebbe molto più facile. Questa potrebbe essere l’idea di una situazione naturale di un giacimento di petrolio in una roccia attraversata da una faglia attiva. Quando arriva l’uomo con il suo pozzo (non certo con una trivella) ad estrarre il petrolio, non fa altro che rendere più difficile il movimento lungo la faglia (come se asciugassimo il tavolo con sopra il libro). Non significa che il prossimo terremoto è stato evitato, ma che è stato solo ritardato. Sembra assurdo, ma basta leggere la formula per capire come le attività estrattive (che diminuiscono P) possano stabilizzare le faglie, non farle scatenare prima. Agiscono come “ritardante”. In pratica, estraendo fluidi il valore di P nella formula diminuisce, facendo crescere il suo risultato τ, che è lo sforzo parallelo al piano necessario a farlo muovere.
Diverso è se invece i fluidi vengono iniettati nel sottosuolo. Di solito questo si fa in giacimenti di idrocarburi che sono già stati sfruttati. Il fluido iniettato va ad occupare i pori di roccia lasciati liberi, svuotati dopo l’estrazione. La prima cosa che va precisata è che non si fa altro che riportare la situazione alle condizioni di pressione naturali precedenti l’attività estrattiva. E’ stato dimostrato che in alcuni casi queste attività hanno causato od innescato terremoti, sebbene di entità non distruttiva; iniettando fluidi si aumenta il valore di P nella formula, abbassando così la τ necessaria allo scorrimento. Altra cosa da precisare è che in questi casi si era trattato di volumi davvero ingenti, di grandezza tale da farli risaltare rispetto alle attività di iniezione, diciamo così, “normali”. Negli USA ciò ha causato scalpore e non pochi guai, comprese alcune cause legali. Va ulteriormente precisato che questi eventi si sono verificati soltanto nei casi in cui il volume di fluidi iniettati era considerevolmente maggiore rispetto a quello estratto in precedenza: la situazione non era come quella naturale, precedente le estrazioni; le nuove pressioni erano molto più alte. E’ stato dimostrato che per innescare così un terremoto bisogna eccedere di una certa percentuale le pressioni che c’erano originariamente prima dell’attività estrattiva, non basta tornare alla situazione di partenza.
Quindi, le attività estrattive ritardano i terremoti stabilizzando le faglie; quelle di iniezione possono innescare terremoti, anticipandoli, ma solo se “si esagera” con i volumi re-iniettati, aumentando le pressioni dei fluidi ben più dello stato naturale di prima delle estrazioni.
Nello specifico, per il terremoto dell’Emilia del 2012, si è andati a scomodare ricercatori e professori di università americane quali Harvard e MIT, individuando i maggiori esperti in materia. Quelli di cui sopra sono i concetti da loro evidenziati. Tra l’altro, le attività di iniezione fluidi nei pozzi “vicini” alla zona epicentrale (10-20 km) coinvolgevano volumi ben inferiori a quelli dei ben noti casi americani di induzione di terremoti dimostrata (18 mila contro 500 mila metri cubi di fluidi, ad esempio – tanto per farvi un’idea delle dimensioni). Il terremoto dell’Emilia è iniziato con una scossa principale il 20 maggio 2012 di magnitudo Richter M 6,0. Sono seguite le consuete repliche finché il 29 maggio c’è stata un’altra forte scossa, magnitudo M 5,8: è stato dimostrato che si trattava di un altro terremoto (avvenuto su una faglia diversa), innescato dal precedente e dalle sue repliche. La variazione di pressione che ha innescato il secondo evento è stata calcolata attorno ai 6 bar. Le variazioni di pressione che gli studiosi hanno calcolato nelle zone epicentrali causate dalle attività presso i pozzi vicini sono risultate variabili tra 5 millibar e meno di un millibar, cioè inferiori a quelle causate dalle maree (l’attrazione gravitazionale della Luna si sente anche sulla crosta, non solo sui mari) e dalle variazioni meteorologiche di pressione atmosferica!
Anche se come geologo ero abbastanza familiare con i concetti relativi ai fenomeni sismici, leggere questo studio mi ha fatto capire diverse cose. Anche se la mia formazione di base mi faceva storcere il naso quando si parlava di relazioni tra terremoti ed attività umane, la pubblicazione di questo lavoro, accessibile a chiunque qui, mi ha comunque aperto la mente su queste possibilità, sebbene solo in casi, diciamo così, estremi.
L’attività estrattiva in Pianura Padana, così come quella nel nostro paese, ha radici antiche, che risalgono agli anni 50. Nel corso degli anni 60 e 70, l’Italia ha prodotto idrocarburi senza che nessuno se ne accorgesse: chi sa che siamo il terzo produttore europeo di gas ed il quarto di petrolio? Non mi tornano alla memoria incidenti degni di nota, nessuna catastrofe ambientale, nessuna macchia di olio che si espande minacciosa verso le coste dei nostri mari. Le attività turistiche hanno convissuto per decenni con quelle estrattive. Non mi sembra che a Rimini e Riccione i turisti non ci siano più andati da quando negli anni 60 in quella zona dell’Adriatico (come anche il resto di esso) sono state costruite numerose piattaforme offshore. L’Emilia Romagna, come tante altre regioni produttive di idrocarburi quali Lombardia, Piemonte, Veneto, Marche, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Sicilia, hanno continuato a produrre, accanto al turismo, i loro prodotti agro-alimentari che tutto il mondo ci invidia. Dagli anni 90 in poi le attività estrattive in tutto il paese si sono ridotte enormemente. Si è arrivati a livelli di un paio di pozzi l’anno quando andava bene, fino a zero (0!) nel 2014. La produzione dai pozzi esistenti ha continuato incessante. Negli ultimi anni si parla di ripresa, ma i numeri dei pozzi perforati all’anno non sono confrontabili con quelli del passato. Allora perché si parla di “invasione delle trivelle”? Quale invasione, se nei decenni passati si perforava di continuo senza che nessuno se ne rendesse conto (significa “senza causare problemi”) e oggi si parla solo di una ripresa dell’attività che non arriverebbe mai ai ritmi del passato?
Di cosa si ha paura? Di una catastrofe come nel Golfo del Messico? Beh, nei nostri mari sarebbe impossibile: giacimenti di petrolio in pressione non ne abbiamo, se accadesse la stessa eccezionale sequenza di errori umani, l’acqua del mare invaderebbe il pozzo, non il contrario. Ed i pozzi che si progettano in Adriatico oggi vorrebbero sfruttare giacimenti che non possono nemmeno essere paragonati a quelli del Golfo del Messico, né come volumi, né come profondità (quindi pressioni). Nell’immaginario collettivo, la concessione di un permesso di perforazione porta all’invasione di trivelle nelle nostre verdi regioni incontaminate. Incontaminate? Negli anni 60-80 tutte le regioni di cui sopra hanno ospitato una intensissima attività di perforazione. Cosa è successo? Nulla. Meno di nulla succederebbe se i progetti di oggi venissero tutti sbloccati: le tecnologie sono enormemente migliorate; significa sia capacità di individuare giacimenti non ritrovati in passato, sia la possibilità di poter estrarre meglio e di più da giacimenti che 30 anni fa sarebbero stati considerati non di interesse. Tecnologie moderne significa anche maggiore sicurezza sia verso l’ambiente che per i lavoratori (è il settore di gran lunga con meno incidenti sul lavoro). Se è vero che in passato le piattaforme petrolifere sversavano di tutto a mare, è ancor vero che oggi non si può più fare, esistono i controlli, severissimi, del Ministero dell’Ambiente. Le piattaforme moderne sono a rilascio zero, inquinano molto meno delle automobili che scorrono lungo le strade costiere e dubito che gli automobilisti si accorgerebbero facilmente della loro esistenza. Oggi da un solo pozzo si può sviluppare un giacimento anche ampio, senza dover perforare numerosi pozzi, attività costosissima che qualunque compagnia preferisce evitare quando può.
La paura è lo shale gas? Il famigerato fracking? Sappiate che in Italia è vietato. Ma ci ha pensato pure madre natura: non abbiamo la possibilità che si siano formati giacimenti sfruttabili con quelle tecnologie, quindi non abbiamo shale gas e non possiamo effettuare fracking. Se qualcuno dice il contrario dice il falso. Il problema è la confusione che si genera dato che esistono due tipi di fracking, quello per estrarre lo shale gas, ossia per sfruttare i giacimenti non convenzionali (da noi proibito dalla legge), sia quello per migliorare la produttività di giacimenti convenzionali: si inietta acqua ad alta pressione per fratturare la roccia e renderla più permeabile. Nessun additivo chimico pericoloso, al massimo qualcosa come la normale candeggina usata in casa.
I fanghi perforanti? Non esistono. Si tratta della traduzione sballata dall’inglese o di una storpiatura voluta apposta per creare disinformazione e paura. I “drilling muds” non sono altro che i fanghi da sempre utilizzati per perforare anche i pozzi ad acqua per evitare che la testa perforante fonda per l’attrito e per riportare in superficie i detriti in modo da analizzarli ed ottenere la stratigrafia geologica del pozzo. Servono anche a ricoprire le pareti del pozzo in modo da isolare completamente il sottosuolo esterno ad esso, aiutando a proteggere eventuali acquiferi dalla contaminazione da idrocarburi (cosa che fa principalmente il rivestimento stagno del pozzo, detto casing). I fanghi non sono perforanti, non sono dei prodotti chimici ad alta tossicità che sciolgono la roccia per permettere alla “trivella” di avanzare; la testata è una corona dentata di diamanti e altri materiali durissimi che possono tritare la roccia, ma il surriscaldamento è enorme e quindi vanno lubrificati e raffreddati – a questo servono i fanghi di perforazione (immagine a lato), la cui composizione deve essere consultabile, non può mai essere segreta.
Abbiamo paura delle trivelle, immaginiamo cieli oscurati dai fumi neri, spiagge annerite, boschi devastati, cibo inquinato. Ma non è questa la realtà. Un pozzo a gas è molto meno invasivo di qualunque palazzo in costruzione. Alla fine si tratta di una piccola area recintata in cui si vede qualche tubo che porta il gas nella rete nazionale di distribuzione, così che possiamo scaldarci d’inverno, cucinare e lavarci con l’acqua calda. A parità di produzione energetica, è più invasivo un campo di pale eoliche o di pannelli solari. Che poi questa sia energia rinnovabile è vero; pulita non so quanto: i pannelli solari contengono materiali altamente tossici che andranno poi smaltiti correttamente e magari ce li procuriamo grazie al lavoro di bambini sfruttati nelle miniere del terzo mondo. Inquinamento? Materiali tossici? Dovremmo preoccuparci davvero delle organizzazioni criminali utilizzate da industrie senza scrupoli che pur di non pagare i costi dello smaltimento dei rifiuti tossici che producono, preferiscono risparmiare pagando molto meno chi glie li fa sparire seppellendoli nelle nostre campagne e affondandoli nei nostri mari o laghi da cui traiamo nutrimento, quel cibo made in Italy che è il fiore all’occhiello del nostro paese. Invece sono i “petrolieri” che vengono ad inquinare, ad invadere il nostro territorio. Invadere? I permessi sono concessi alla luce del sole dalle autorità ministeriali e locali. Non si pagano mazzette per ottenerli, non si fanno accordi con chissà chi, tanto meno con la criminalità locale. I rapporti ambientali che comprovano la fattibilità di tali progetti sono dettagliatissimi, costosissimi e vengono severamente controllati da apposite commissioni ministeriali che si occupano poi pure di sorvegliare che i lavori procedano nel rispetto dell’ambiente. Non so se esista una attività più controllata. Tra l’altro, quando una azienda ottiene un permesso di ricerca non significa che arriverà un’invasione di trivelle. Significa solo che l’azienda ha i diritti (e l’obbligo) di effettuare ricerche, il più delle volte su dati preesistenti, per capire se ci fossero opportunità economiche; se non ne trovasse abbandonerebbe l’area. In caso contrario si effettuerebbe un solo pozzo esplorativo per capire se ci sia davvero un giacimento sfruttabile; se non ci fosse il pozzo andrebbe richiuso e l’area ripristinata a dovere (sotto il rigido controllo ministeriale). Poi il permesso andrebbe abbandonato. In caso di successo, invece, bisognerà chiedere di nuovo autorizzazioni, effettuare relazioni ambientali da sottoporre a valutazione del ministero, prima di ottenere il permesso a perforare solo sull’obbiettivo individuato, non su tutta l’area del permesso! Nessuna compagnia sprecherebbe soldi per crivellare l’intera area alla cieca con una invasione di “trivelle”! Gli studi, le ricerche, si effettuano prima per individuare un luogo preciso, mica si procede selvaggiamente a fare buchi! Nessuna invasione quindi, nessuno stupro del territorio.
Intanto l’agricoltura di tutto il mondo riversa nei mari quantitativi enormi di sostanze inquinanti. Allevamento, agricoltura e deforestazione per creare nuovi campi agricoli producono assieme più gas serra di quanto non lo faccia il nostro viaggiare in aereo ed in auto. Ma no! La colpa è delle “trivelle”. Quando crollano le case e la gente muore dopo un terremoto non ci si scaglia sul mancato rispetto delle norme antisismiche da parte dei costruttori, magari occupati a far quadrare il bilancio dei lavori utilizzando materiali più economici. No, sono state le trivelle a causare il terremoto ed i morti, non la corruzione negli appalti edilizi, le mazzette elargite per ottenerli e la conseguente riduzione delle spese per poterci rientrare.
Diamo la colpa ai soliti “texani”, ai petrolieri, gli inquinatori del mondo, tanto non reagiscono. Prendersela con le “ecomafie” che seppelliscono veleni sotto i campi agricoli forse è più pericoloso…
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