Con questo articolo mi piacerebbe condividere un’esperienza che pochi aikidoka hanno la possibilità di realizzare: praticare con il proprio maestro nella condizione in cui anche lui è un “normale” studente. Immagino che io voglia farlo nel tentativo di intellettualizzare e razionalizzare un’esperienza che per me è stata allo stesso tempo un beneficio e motivo di grande frustrazione, nella speranza di fornire al lettore anche qualche utile informazione.
Siamo abituati a vedere i nostri insegnanti come modelli, guide o addirittura eroi e tendiamo, consciamente o meno, a cambiare il nostro atteggiamento nei loro confronti quando siamo sul tatami. Siamo così abituati ad essere chiamati come Uke durante la lezione (in realtà lo speriamo vivamente – che onore!!), impegnandoci duramente per aiutarlo a dimostrare i suoi movimenti puliti e limpidi ed i suoi concetti in modo altrettanto limpido, che il più delle volte diventiamo compiacenti. Infatti tendiamo spesso a biasimare noi stessi per qualunque errore commesso durante la dimostrazione. Naturalmente è un atteggiamento molto utile e necessario durante le dimostrazioni a lezione, ma a volte è importante rompere questo schema, in modo da portare la nostra relazione con il maestro ad un altro livello. Dal mio canto, colgo quest’occasione come un modo per scuotere la fede nel nostro maestro e nel nostro sistema, e di raggiungere un diverso livello di comprensione dell’insegnamento che abbiamo ricevuto.
In occasione di un viaggio a Tokyo, ho avuto l’opportunità di allenarmi con Philippe Gouttard. In Giappone non è raro che negli spogliatoi si fissino “appuntamenti” con un altro aikidoka per la prossima lezione o per tutto il giorno seguente. In questo modo ci assicura di potersi allenare con una certa persona almeno una volta durante la nostra permanenza. E’ una specie di rituale in realtà, perché dopo essersi accordati a praticare insieme ci prepariamo mentalmente alla sfida a venire (di solito all’Hunbu Dojo ci si allena con la stessa persona per tutta la lezione). Poi, una volta sul tatami, si cerca di restare vicini durante il riscaldamento per essere sicuri di raggiungere velocemente la persona di nostro interesse quando arriva il momento di scegliere il partner (rifiutare l’invito di un partner è considerata cosa molto disdicevole, anche se la persona non è quella con cui ci si era “accordati” di praticare).
Una cosa che mi sento dire di Philippe dopo che mi viene chiesto chi è il mio maestro è: “Ah si, quel tipo che viene una volta all’anno, ammazza tutti e poi torna a casa!” L’uso amichevole del verbo “ammazzare” andrebbe qui spiegato, ma prima parliamo un po’ della pratica di Philippe.
Philippe si è allenato all’Honbu Dojo molto regolarmente negli ultimi 30 anni, a volte restando per lunghi periodi di tempo (mesi) ed imparando a parlare il giapponese nel frattempo. Philippe appartiene a quella categoria di persone che pratica, dorme e mangia facendo Aikido. Oltre ad essere uno dei pochi istruttori di alto grado che ancora va ad allenarsi regolarmente a Tokyo, si allena pure più duramente e più spesso di chiunque altro io conosca. Si presenta a lezione ogni giorno per tutte e cinque le lezioni dalle 6.30 di mattina alle 8 di sera. Pochi di noi riescono a farlo, neanche da giovani. Sicuramente per me è quasi impossibile allenarmi due giorni consecutivi a quei ritmi. A parte l’incredibile tecnica per cui lo conosciamo, si è anche guadagnato un grande rispetto dagli insegnanti giapponesi che non ho potuto riscontrare per nessun altro, figuriamoci un Gaijin.
Quando dico che Philippe ti “ammazza” sul tappeto, intendo che ti spinge fino al limite delle possibilità fisiche e mentali. Come dice li stesso, “Quando sono difronte a uno shodan divento uno shodan, quando sono difronte a un 5° kyu divento un 5° kyu”. State sicuri che non vi lascerà scendere dal tatami con ancora un minimo di energia nel vostro corpo.
Per tornare al “balletto” (come lo chiama Philippe) che ci facciamo sul tatami, posso dirvi che quando è venuto il momento di prendere l’appuntamento con Philippe per il giorno dopo, ho cominciato ad essere un po’ apprensivo, anche se lo sapevo da molto tempo addietro che prima o poi mi sarei allenato con lui. Quella notte ho pensato alla natura dell’esercizio che mi veniva proposto. Primo, non sarebbe certo stato il momento di continuare a fare il solito tipo di uke con lui. Infatti ho dovuto compiere un grosso sforzo per dimenticare che era il mio maestro, per convincermi che era come un qualunque altro praticante.
Una cosa importante che Philippe ci tiene spesso a precisare è che la sua tecnica sarà diversa a seconda se è l’insegnante nel suo dojo o solo uno studente mentre qualcun altro insegna. Con uno stesso partner eseguirà le tecniche in modo diverso nelle due diverse situazioni. Vede le due cose in modo molto distinto, le chiama tecniche da insegnante e tecniche da studente. Come insegnante, riconosce che sta effettuando la tecncia su qualcuno che è lì per dare il suo meglio. Da insegnanti non si ha neanche bisogno di fare cadute particolarmente dure. Al contrario, quando si è studenti bisogna eseguire tante cadute quanto il partner e, da un punto di vista mentale, la relazione tra i due cambia. Il partner (che era studente in un’altra situazione) è implicitamente liberato dalla tecnica del suo insegnante; può proporre il suo Aikido, la sua tecnica. C’è anche un po’ di competizione perché lo studente è nella posizione di “mettere alla prova” se stesso e la pertinenza della sua tecnica; l’insegnante si confronta con una persona che non deve più essere accondiscendente, ma deve comunque vincere perché presto tornerà al ruolo di insegnante!
Questa diversa prospettiva è cruciale ed è per questo che è molto importante che un insegnante di così alto livello come Philippe torni ad essere studente ogni tanto. Sfortunatamente pochi lo fanno… Questo video di O Sensei proiettato da un bambino dovrebbe essere abbastanza d’esempio per tutti noi!
Per tornare alla mia esperienza, il giorno dopo venne il momento di praticare insieme e, una volta decisi, Philippe si è venuto a sedere vicino a me mentre il Maestro Seki dimostrava la prima tecnica. Cominciavo ad essere nervoso, cercando dentro di me innumerevoli scuse per un mio eventuale falllimento: il jetlag che si faceva sentire di più, la stanchezza del viaggio, il caldo, la durezza del tatami, il cibo straniero, ecc. Quando ci alzammo e iniziò il contatto fisico, tutti questi pensieri scomparirono. Ero di fronte ad un partner sconosciuto e stavo per dargli il mio meglio. Non conoscevo il suo grado, e nemmeno più la sua età. Se fosse stato meno esperto di me l’avrei spinto al suo limite e se al contrario lo era più di me mi sarei spinto a sfidarlo fino al punto di vomitare sul tatami o svenire. Questo è il modo in cui pratico sempre, anche alle normali lezioni. A volte è difficile perché la gente può fraintendere questo comportamento come durezza o aggressività, ma è il solo modo che conosco di rispettare il mio partner.
Le cose erano cominciate bene, mi sentivo forte, sicuro e non rendevo la cosa facile a Philippe. Comunque capii subito come invece fosse astuto. Per i primi 10 minuti mi ha seguito, lasciandomi fare tutto quello che volevo, aspettando pazientemente che la mia energia e la mia forza si attenuassero. Passati questi pochi minuti, una volta che avevo cominciato ad avere difficoltà di respirazione, venne per lui il momento di di guidare lo show… e che show! Fu per me una grossa lezione di umiltà. Data la mia esperienza in diversi stili e la mia stazza e condizione fisica, raramente trovo partner che mi stancano. Mi ritrovo spesso al lato del tatami ad aspettare che il mio partner riprenda fiato. Quel giorno invece, un uomo di 53 anni mi mostrò il significato di pratica intensa, tempismo e tecnica. Trascorsi il resto della lezione a cercare di dare il mio meglio, ma mi sentivo totalmente stremato, un partner non degno per lui. Passai dalla stanchezza al sentirmi quasi male, fino al limite delle lacrime di frustrazione. Ma una cosa devo dire: in nessun momento ho mai sentito il benché minimo dolore corporeo, solo un completo prosciugamento di energie. Non voglio neanche pensare come sarebbe stato praticare con lui quando aveva 40 anni! Tra di noi si dice sempre che praticare con Philippe è come passare un’ora in una lavatrice…
Su ushiro ryote dori, la presa di Philippe era così forte che potevo a stento muovermi, cosa alquanto frustrante. Dal canto mio allora provavo ad afferrarlo sempre con più forza quando era il suo turno di eseguire la tecnica, consumando stupidamente sempre più energie preziose. Più resistevo, meno sembrava lo sforzo che faceva nel proiettarmi e più dura era per me muoverlo. Al contrario, lui non resisteva affatto, la sua presa era completa, lo provano i segni sui miei polsi il giorno dopo, ma non c’era alcuna rigidità nel suo corpo. Mentre io ero un blocco di cemento che lui portava in giro, sembrava più un sacco pieno di liquido, pesante ed impossibile da afferrare o muovere.
A un certo punto mi chiedevo perché mi rendesse la cosa così difficile. Voleva che mi sentissi uno schifo? Mostrarmi che il mio livello non era buono? Mostrarmi chi era il capo? Invece capii che stava solo applicando le cose che dice sempre sul tatami. Era lo specchio di quello che facevo io, più cercavo di essere duro, più lui lo era con me, ovviamente in modo più intelligente ed efficace.
L’altra parte della spiegazione veniva da qualcosa che Philippe chiama “i momenti tra le tecniche”. E’ il tempo tra la proiezione ed il momento in cui il partner ristabilisce il contatto; l’attacco successivo. Dice sempre che un partner non ritornerà a noi mai allo stesso modo, ma cambierà il suo attacco secondo il modo in cui l’abbiamo appena proiettato. Capii che era proprio quello che stava facendo lui. Ogni frustrazione che avevo la mettevo nella tecnica e tornava sempre a me nella forma della sua presa successiva. Piuttosto che mettere i miei sforzi nella parte dellla proiezione, avrei dovuto concentrarmi sui momenti in cui eravamo separati, in modo da trovarmi pronto, “sintonizzato”, per la sua sollecitazione successiva, ma ero troppo occupato a provargli che la mia tecnica funzionava, non importa quanto mi prendesse con forza.
Quel che ho imparato da questa esperienza è che stavo confondendo una presa forte con la rigidità, la solidità con l’immobilità. Presenza e solidità sono concetti estremamente difficili da trasmettere agli studenti. Philippe dice spesso che la frase “tieni forte” non ha lo stesso sognificato per un 20enne e per un 50enne o più. Il 20enne stringerà il più forte possibile, con le sue braccia totalmente bloccate, mentre il 50enne tenderà ad essere molto pesante, presente e disponibile fisicamente.
L’altro mio errore è che stavo cercando disperatamente di eseguire delle tecniche su di lui, piuttosto che con lui. Stavo cercando di provargli che ero valido, di mostrargli il mio Aikido, senza pensare che magari lui lo conoscesse meglio di me. Fraintendevo l’intenzione e i suggerimenti nei suoi attacchi e nelle sue tecniche, mentre lui leggeva le mie come un libro aperto. Mi sforzavo troppo di “riuscire” nella tecnica, qando avrei dovuto essere più attento ai momenti tra le tecniche; ero troppo preoccupato del risultato, quando avrei dovuto usare questa opportunità come uno strumento di riflessione.
Comunque l’esperienza è stata molto benefica. E’ stato anche interessante vedere che quando non si possono usare le parole, a volte è difficile capire l’altra persona sul tatami. Questo mi ha chiarito che se non riesco a capire il mio insegnante sul tatami, probabilmente non capisco molti altri partner che conosco molto meno. Come dice Philippe, “Le tecniche degli altri non sono migliori o peggiori delle nostre, solo differenti e, se non le capiamo, significa che non ci siamo allenati abbastanza”. Quindi mi allenerò di più, sperando che la prossima volta lo capirò meglio.
A volte sento che ho sprecato quell’ora preziosa concentrandomi sulle cose sbagliate, ma spero di avere presto un’altra opportunità di allenarmi con lui e fare altri errori. Come dice spesso Philippe, “Nell’Aikido, impariamo a perdere”, forse è questo che voleva farmi vedere quel giorno…
Quest’articolo è solo la 6 parte su 7 di un resoconto su un viaggio in Giappone con Philippe Gouttard dell’autore, disponibile integralmente su www.guillaumeerard.com.
Articolo di Guillaume Erard pubblicato in inglese su GuillaumeErard.com
Traduzione dall’inglese a cura di Pasquale Robustini