La Musica è sempre stata fondamentale per me. E’ l’unica forma d’arte che mi prende da dentro e che scuote il mio essere. O almeno è l’unica con cui sono davvero in contatto profondo. Non ho mai creato musica. Forse non mi ritengo all’altezza, forse perché ho sempre l’impressione che quello che verrebbe fuori da me mi piacerebbe comunque meno di quello che ascolto. Suono la chitarra in un gruppo che fa cover di brani rock di vari autori. Fin da bambino cantavo imparando i testi a memoria dalla radio. Il primo che ricordo è Tanto pe’ Canta’ di Nino Manfredi. Non andavo ancora a scuola. Del primo anno di scuola ricordo che mettevo in continuazione il disco Azzurro di Adriano Celentano su una fonovaligia di uno zio. Qualche anno dopo cantavo persino Rumore di Raffaella Carrà. Questo è quanto radio e TV propinavano all’epoca. I miei non erano molto musicali, non ascoltavano niente in particolare. Avevo solo la Hit Parade della radio ed era quasi tutta musica melodica italiana. Quello c’era e quello cantavo. Immediatamente mia sorella, più piccola di due anni, seguì le mie orme.
Una coppia di zii giovani aveva a casa un impianto stereo che anni dopo avrebbero passato a me innescando anche la passione per l’alta fedeltà. Forse tra i loro dischi, forse per caso in TV, scoprimmo un duo italo-americano, un uomo e una donna che cantavano. Ci immedesimammo e cominciammo ad imparare i loro testi per replicare le loro canzoni. Erano Wess & Dori Ghezzi: Wesley Johnson, un musicista (bassista e cantante) americano di colore scomparso nel 2009 e Dori, bionda cantante italiana che sarebbe poi diventata la moglie di Fabrizio De André ed anche rapita per ricattarlo. Quindi facevamo un duo canoro. Quando eravamo in giro in macchina con i nostri genitori, seduti sul sedile posteriore li allietavamo col folto repertorio di brani recitati tutti a memoria, ognuno la sua parte. E’ l’unico tipo di memoria che mi è rimasta con l’età. Ricordo testi e accordi, nonché assoli, di un gran numero di brani. Non so leggere la musica anche se conosco il sistema. Ma non leggo mai i testi, gli accordi, le progressioni, neanche alle prove. E tanto meno dal vivo. Sarà merito di aver cominciato a mandare a memoria brani in tenera età e non voglio cedere ora che sono “attempato”. Preferisco confondere le strofe piuttosto che arrendermi a leggere i testi cantando.
Quando cominciai la scuola media mia sorella di 9 anni scoprì la chitarra di uno zio a casa dei nonni paterni. In realtà era stata comprata da mio padre quando era militare. Ci ha giocato un po’, imparando 3-4 accordi base, per poi lasciarla definitivamente a casa dei genitori, dove suo fratello di 10 anni più giovane aveva fatto progressi maggiori e poteva esibirsi in un certo numero di brani di musica popolare. Ci insegnò lui i primi accordi e ci regalò quella chitarra. Ricordo benissimo la sera in cui, sentendomi ormai padrone degli accordi maggiori e minori, mi sedetti a terra con chitarra e mangianastri e mi misi pazientemente a provare ogni accordo per compararlo ad alcuni brani di Wess & Dori Ghezzi fino a trovare quelli adatti (più o meno). A breve avemmo una base sonora su cui cantare. Anche quella fu una grande esperienza formativa. Senza alcuna conoscenza musicale, solo con il mio orecchio, imparai a capire come trovare gli accordi di un brano, almeno quelli di musica leggera. Erano tempi in cui non pensavo che sarei mai riuscito a suonare accordi col barré, tanto meno degli assoli di chitarra.
Dopo qualche tempo un compagno di scuola che faceva il DJ a tempo perso in una radio locale mi passò un nastro con alcuni brani tra cui i grossi successi dei Bee Gees dell’epoca. Così cominciammo anche ad imitare il falsetto dei fratelli Gibb, immedesimandoci stavolta come fratelli anche noi: Staying Alive, How Deep is your Love, If I Can’t Have You, Tragedy, Too Much Heaven. I Bee Gees divennero il nostro riferimento e acquistammo non solo La Febbre del Sabato Sera (una sorpresa che ci portarono a casa una sera i genitori) che Spirits Having Flown, il loro più grande successo. Scoprimmo anche i Bee Gees pre falsetto, grandi melodie che esistevano dagli anni 60 e che imparammo anche in un inglese inventato (Massachussetts, I Just Gotta Get a Message to You, Run to Me, How Can You Mend a Broken Heart). Sulle riviste musicali ogni tanto comparivano i testi in inglese dei successi più famosi. Imparai così il veloce cantato di Staying Alive, praticamente uno scioglilingua anche per cantanti di lingua inglese. Mi appassionai anche a quella lingua e moto imparai dalle canzoni. I cori dei Bee Gees ci insegnarono a trovare ognuno una voce diversa per cantare in accordo. Così provavamo a coinvolgere un terzo amico che sapeva mettere accordi sulla chitarra e ci aiutava col canto. Io ero riuscito ad imparare i barré ed ormai dominavo anche gli accordi di settima. Era ora di cominciare a capire come fare qualche assolo. Sarebbe stato meglio però avere una chitarra elettrica. Ma poi eravamo tre chitarristi, l’ideale sarebbe stato che uno facesse il solista, uno il ritmico e l’altro il bassista. Toccò a mia sorella. Scoprimmo che il basso aveva solo le 4 corde più “basse” della chitarra, così togliemmo due corde alla vecchia chitarra dello zio e incidemmo gli slot per distribuirle nello spazio di 6 corde. La fine di quella chitarra venne quando scoprimmo che esistevano le corde per basso. Le montammo e l’enorme tensione distrusse definitivamente la vecchia chitarra del 54. Ci voleva un basso e anche una chitarra elettrica. I genitori capirono e vennero in soccorso facendoci il regalo più bello della nostra vita: una imitazione Fender Stratocaster ed un basso imitazione del Gibson Ripper… Eravamo felicissimi!
La coppia di giovani zii con lo stereo aveva però un disco italiano che ci colpì molto anche per le linee di basso che stavamo cercando di capire studiando i brani dei Bee Gees. Questi qui erano davvero superiori ed il chitarrista faceva degli assoli incredibili. Si trattava dell’album Boomerang dei Pooh. Addirittura il bassista faceva anche lui degli assoli e aveva uno strano suono morbido in quei casi. In brani come La Città degli Altri, Quaderno di Donna, Giorno per Giorno, Cercami, Classe 58 ed Il Ragazzo del Cielo c’era davvero molta più carne al fuoco ma era tutto più difficile. Gli assoli di Dodi Battaglia erano per me un compito improbo. Lentamente cominciai a mandare a memoria i fraseggi, poi un nota alla volta cercavo di trovarli ma ad un certo punto dovetti ricorrere all’aiuto di un amico che studiava al conservatorio. Ma anche quella è stata una grande palestra. L’unico vero rimpianto è che la cosa non mi ha spinto a prendere lezioni. Ero portato per la chitarra ed avevo un ottimo orecchio musicale. Potevo migliorare enormemente. Inoltre non avevo nessuno che mi indirizzasse verso la musica dove la chitarra elettrica era lo strumento principe: il Blues e poi il Rock. Sarebbe stato ottimo avere come molti altri chitarristi dei riferimenti di quel tipo a quella giovane età. Rimasi per anni con la “fissa” dei Pooh. Per fortuna Dodi Battaglia è un autentico fenomeno. La produzione Pooh degli anni 70 contiene delle vere e proprie chicche musicali sconosciute al grande pubblico. Brani come Il Tempo Una Donna La Città, Oceano, 1966, Padre del Fuoco Padre del Tuono Padre del Nulla, Il Primo Giorno di Libertà, Gitano, Odissey, Fantastic Fly, Gatto di Strada sono notevoli sotto tutti i punti di vista e non li rinnego ancora oggi.
Ma a quel tempo acquistai due 45 giri che ascoltavo col repeat sul giradischi stereo che da quei giovani zii era passato a noi. Erano My Sharona dei Knack e Tunnel of Love dei Dire Straits. Non riuscivo a smettere di ascoltarli. Era il Rock che faceva breccia. Ma anche se a stento in qualche modo riuscivo a seguire gli assoli di Dodi Battaglia, ancora non conoscevo le basi del rock e non riuscivo a capire neanche come riprodurre i power chords del brano dei Dire Straits (e non avevo idea del finger picking di Mark Knopfler). Ero spiazzato. Non sapevo riprodurle (non sono brani che si possono suonare con accordi pieni e cantare come quelli melodici di Bee Gees e Pooh).
Gli scarsi mezzi a disposizione mi avrebbero tenuto ancora qualche anno a rispettosa distanza da questa musica che però mi dava sensazioni diverse, più intense. Una sorta di timore reverenziale mi ha impedito di approfondirla e ho insistito a lungo sui Pooh anche perché a un certo punto incontrammo un batterista e un chitarrista ritmico che avevano voglia di suonarla con noi. Mettemmo su un gruppetto, il chitarrista ritmico imparò a mettere gli accordi anche sulle tastiere e così ci divertimmo a suonare nelle sale prove uscendone con delle cassette che conservo ancora. Erano gli anni 80, gli anni dell’università per me e mia sorella. Le registrazioni ci fecero capire che un conto è “cantare con la chitarra in mano” come tutti gli italiani sanno fare, un altro è registrasi e poi riascoltare inorriditi il risultato. Le cose si fanno in un altro modo. Pian piano imparammo.
Ma io avevo una certa irrequietezza musicale. Le melodie italiane le accettavo quando gli assoli di chitarra inseriti erano interessanti. Per i Pooh questo accadeva, ma anche loro erano in fase decadente. Io volevo qualcosa di più ma non sapevo bene come cercarla. Avevo imparato a suonare qualcosa di Dire Straits e Pink Floyd e il gruppo mi ha seguito nel farlo. All’epoca Duran Duran e Spandau Ballet andavano per la maggiore ed inserimmo anche alcuni dei loro successi. Pensavo di trovare lì quello che cercavo ma mi sbagliavo di grosso. Poi i nostri cugini gemelli più giovani ci prestarono una cassetta: Born in the USA di Bruce Springsteen. Mia sorella non ne fu minimamente toccata. Io ero sconvolto. Quel modo così energico di fare musica era diverso da tutto quello che avevamo fatto insieme fino ad allora. Mi dava una carica pazzesca. Cantare quei brani pregni di emozione mi faceva scorrere il sangue nelle vene. Un’amica mi regalò il cofanetto Live 1975-1985 introvabile (appena uscito era stato esaurito in breve tempo). Riuscii a convincere il mio gruppo a suonare Dancing in the Dark e più avanti un brano dall’album successivo, Tougher than the Rest, con mia sorella che suonando il basso cantava le linee di Patti Scialfa, oggi la moglie del boss. Allo stesso modo mi aiutava su brani come The River e pochi altri che la accontentavano, ma in genere il Boss non le piaceva. Io invece ero preso.
Bruce Springsteen and The E Street Band suonarono a Roma nello Stadio Flaminio il 15 giugno 1988. E’ la data della mia rinascita musicale. Era quello che stavo cercando. Fu una rivoluzione interna. Avevo fino ad allora anche apprezzato molto il nuovo Sting di The Dream of the Blue Turtles, raffinatissimo album in collaborazione con mostruosi strumentisti jazz. Ma Sting era uno di quelli che andava dicendo che il rock era morto. Vedendo Bruce Springsteen dal vivo mi sembrava il contrario. Non sapevo la storia, non conoscevo il passato, quello che era accaduto negli anni 60 e 70, quindi non capivo cosa Sting intendesse. Ma per quello che mi riguardava il Rock era appena nato.
Il Boss aveva cambiato la mia vita musicale, mi aveva fatto scoprire i miei veri gusti. Di quello avevo bisogno musicalmente. Il risultato fu che molto di quello che avevo ascoltato e suonato fino ad allora mi risultava “moscio” in confronto a tanta energia. Era come una droga. Ne avevo bisogno. Passavo le ore con la mia imitazione Stratocaster a suonare e cantare brani come Backstreets, Darkness on the Edge of Town, Born to Run, Thunder Road, The River. Anche fatti da me mi mettevano i brividi, a volte anche un groppo in gola. Tutta un’altra musica, come si suol dire. Era inevitabile che le strade musicali tra me ed il resto del gruppo, rimasto essenzialmente legato al melodico, si allontanassero. Io dovevo riscoprire il Rock, sentivo che avevo già perso troppo tempo. Il Boss mi aveva risvegliato. Non potevo più fermarmi.
Riscoprii anche Dire Straits e Pink Floyd. Acquistai i loro album, imparai alcuni assoli di Gilmour e Knopfler, ma dopo un po’ il gruppo perse la spinta e si sciolse. Non avevamo fatto niente di particolare, solo sale prove e registrazioni in presa diretta su cassetta. Non eravamo in grado di affrontare una serata live. E’ stato un mio rimpianto per anni. Quando vedevo gruppi che suonavano su un palco in una piazza di quartiere o di un paese provavo un misto di ammirazione ed invidia. Anche i cugini che mi avevano introdotto a Bruce Springsteen avevano fatto di più, facevano serate in un gruppo Soul, uno di loro era diventato un ottimo batterista e qualche anno dopo avremmo avuto modo di suonare insieme, anche con mia sorella al basso, con un pianista appassionato di Elton John, inserendo anche qualcosa di Dire Straits e Toto.
I Toto sarebbero stati la mia “fissa” successiva. Rosanna era stato uno dei miei brani preferiti ed ero pronto a tentare di emulare Steve Lukather nei limiti del possibile. Ma ero solo. Mi ero comprato una tastiera MIDI per farmi le basi su cui suonare. Oppure lo facevo dietro ai dischi. Era una fase critica della mia vita. Mi ero laureato da un po’ ma non riuscivo a trovare lavoro. Quindi accettai un lavoro in un negozio di strumenti musicali, nel reparto audio professionale, dove dovevo occuparmi, viste le mie capacità informatiche, di hard disk recording, una cosa all’avanguardia nei primi anni 90 ma che è in tutte le case oggi, che basta un computer per avere uno studio di registrazione digitale multi pista ad alta qualità. Col senno del poi avrei potuto approfittare dell’occasione per ritagliarmi un lavoro nella musica, magari come fonico. Insistetti per fare il geologo seguendo il percorso dei miei studi e la cosa finì presto. Ne venni però fuori con una splendida Paul Reed Smith EG-4, marchio di cui il negozio era allora l’importatore ufficiale in Italia, in sostituzione della vecchia e ormai devastata imitazione Stratocaster che regalai a dei cugini.
Anni dopo mi ritrovai ad insegnare scienze in una scuola italiana del Cairo, in Egitto. Partii all’avventura, lasciandomi tutto alle spalle, pensando a una vita nuova. Ma feci l’enorme errore di non portarmi dietro la chitarra. Mi feci mandare invece dei libri di geologia per rimanere aggiornato e la cassetta di Rattle and Hum degli U2, che non avevo ascoltato molto e per qualche motivo me ne era tornata voglia. Durai solo pochi mesi. Al rientro cominciai a lavorare come geologo e la colonna sonora di quel periodo diventarono gli U2. Acquistai album, accordai la chitarra in “drop E”, che sta a significare un mezzo tono più in basso, fino ad arrivare a far installare delle spessissime corde 0.011 pollici sulla mia nuova PRS per emulare The Edge.
Era qualche anno che il nome di un gruppo mi ronzava nella testa. Pearl Jam. Non so perché. Ne sentivo parlare, volevo conoscerli meglio. Acquistai il primo CD nel 98: Vitalogy. L’impatto fu immane. L’energia Rock degli U2 mista al pathos di Springsteen ma con sonorità chitarrisitiche da Knack o comunque da Rock classico. I Pearl Jam sono miei coetanei. Con loro avevo trovato la musica ideale. Ma non sarei mai riuscito a suonarla in un gruppo. Mediamente i loro fan sono ben più giovani di me. Il grosso dei fan di solito segue musicisti più anziani, ma i coetanei non mancano. Un amico batterista era anche abbastanza preso dalla loro musica e un giorno a casa sua registrammo alcuni brani con me a chitarra e voce. In seguito aggiunsi al computer la chitarra solista ed il basso. Non feci mai più di questo. Ormai suonare in un gruppo sembrava cosa del passato. Ero troppo grande, a breve mi sarei “accasato”. La musica rock dei Pearl Jam, che tanto mi ricordava il rock classico del passato, mi spinse alla ricerca di questo passato, per me perduto. Riscoprii i Led Zeppelin e da essi risalii ai Rolling Stones, Jimi Hendrix, per tornare avanti nel tempo a Stevie Ray Vaughan. Bagaglio indispensabile per un chitarrista. Meglio tardi che mai.
I Pearl Jam hanno fatto fatto da colonna sonora durante il periodo più bello della mia vita, dal lavoro da ricercatore universitario e i miei due viaggi da geologo in USA. Durante il secondo mi fermai quasi tre mesi e iniziai la storia con quella che oggi è mia moglie in modo spettacolare a New York. Il giorno che venne a casa mia, appena rientrato da New York, le suonai i Pearl Jam mentre eravamo abbracciati. Li avremmo visti dal vivo solo parecchi anni dopo in un concerto a Roma il 26 giungo 2018, il giorno del nostro 11° anniversario di matrimonio. Ci eravamo sposati a New York nel 2007 e ci siamo tornati ancora nel 2010 a portare nostro figlio a far conoscere ai miei parenti americani. Tutto con i PJ come colonna sonora. Nel frattempo avevo pure trovato lavoro in una compagnia petrolifera, ero padre, guadagnavo bene.
Avevo ottenuto tutto quello che cercavo. Anni prima mi ero con mia stessa sorpresa appassionato all’Aikido, un’arte marziale giapponese non competitiva. Era stato un colpo di fulmine, uno sconvolgimento. Gli ho dato anima e corpo. La chitarra era tutto l’anno in custodia, rispolverata raramente. Usavo saltuariamente l’acustica per cantare un po’ di Pearl Jam, U2, Springsteen di tanto in tanto. Niente di più. Ormai la musica era del passato. Ero un aikidoka. Sarei diventato cintura nera e poi persino istruttore. Chi l’avrebbe mai immaginato? La musica rimaneva come ascolto, l’alta fedeltà; cominciavo a vedere il jazz come la musica del mio futuro, come fruitore, non suonatore.
Ma ogni tanto mi sorprendevo a immaginarmi su un palco a suonare da solista in un gruppo. Era chiaramente il segno che avevo lasciato qualcosa di incompleto. Non so perché, a parte brani di U2, Pearl Jam o Led Zeppelin, mi immaginavo più spesso a suonare Comfortably Numb facendo esattamente la parte di David Gilmour (forse era un presagio). Pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto poterlo fare. Non dico diventare un musicista di professione, ma come tanti che nella festa di paese vengono invitati col gruppo a suonare avrei potuto farlo anche io. Ma non era mai successo. Quelli con cui avevo suonato sì, ci erano riusciti: mia sorella si era concentrata sul canto, aveva preso lezioni e ogni tanto faceva serate con un’amica, con tastiera, chitarre acustiche e voci si divertivano. Io ero solo spettatore. Il batterista che suonava nel nostro gruppo quando eravamo ragazzini aveva ora un suo gruppo ed ogni tanto facevano degli spettacoli e ci invitavano. Anche il batterista con cui avevo registrato quelle sessioni Pearl Jam aveva un suo gruppo, si era fidanzato con la cantante ed io continuavo ad essere solo parte del pubblico. All’epoca mi dicevano tutti che ero il più preparato, che se avessi studiato sarei diventato “un treno”. In effetti dirigevo abbastanza gli altri, spiegando loro cosa dovessero fare quando eravamo in sala a provare. Poi gli altri hanno messo in pratica e sono arrivati a fare serate. Io ero lo spettatore. Avevo realizzato tutto il resto: lavoro che sognavo, famiglia, figlio. Ma stava per succedere qualcosa che mi avrebbe sconvolto.
Per tutta una serie di motivi, nel 2016 la ditta canadese per cui lavoravo chiuse i battenti. Mi ritrovavo senza lavoro, con moglie e figlio piccolo a carico, ad un’età critica (poco più di 50 anni) per cui sei troppo giovane per andare in pensione e troppo vecchio perché qualcuno ti riassuma. Almeno così è in Italia. Ho provato con i miei contatti esteri ma la crisi del settore era globale. Ho provato a tornare all’università, per un dottorato, ma anche lì mi hanno ritenuto troppo vecchio. Il sostegno dell’assegno di disoccupazione più l’aiuto della famiglia ha evitato il disastro. Era un po’ di tempo che una persona mi invitava ad unirmi a lui ed altri amici nostri coetanei per suonare. Mia sorella gli aveva detto che ero un chitarrista che ben si sarebbe adattato a quello che facevano così, per passare il tempo e coltivare una passione che io avevo essenzialmente abbandonato, sostituita con l’Aikido. Nel periodo più buio della mia vita la musica poteva essere un modo per trovare un po’ di serenità. Fino alla perdita del lavoro avevo sempre declinato per via degli impegni familiari e del corso di Aikido che tenevo. Fu mia moglie ad insistere perché andassi. Probabilmente vedeva lo stato in cui versavo. Accettai l’invito e improvvisamente tutto tornava alla memoria. Tra i brani che i “ragazzi” provavano all’epoca c’erano cose che non conoscevo come Heroes di David Bowie, Come Together dei Beatles (o brani più famosi come Hey Jude e Imagine). Era compresa anche Comfortably Numb dei Pink Floyd. Era tanto che non provavo gli assoli. Mi venne in mente di consultare Youtube e scoprii una fonte immensa di informazioni e lezioni pratiche. C’era chi ti faceva vedere passo per passo come suonare un assolo, come ricreare i suoni. Era incredibile. Non ci avevo pensato, tanto ero fuori ormai dal suonare la chitarra. L’emozione che provavo all’avvicinarsi alla data delle prove la ricordo benissimo ancora oggi, a 5 anni di distanza. Ho rispolverato la mia PRS e quella sera mi sono presentato lì, nello splendido verde del maneggio del batterista, a due passi dalla casa di campagna in cui vivevamo all’epoca. Mi sorprese di vedere un giovanissimo bassista. Altri due erano lì con le chitarre. Ma mi dissero di pensare io alle parti soliste. Mi attaccai ad un amplificatore che mi indicarono (non capivo nulla di amplificatori e di effetti) e chiesi: “Con che cominciamo?”. Il batterista propone “Comfortably Numb”. Il cerchio si era chiuso. Col tempo perdemmo prima il giovane bassista, poi uno dei chitarristi ritmici. Ma nel giro di qualche mese mi ritrovai per la prima volta della mia vita a suonare in pubblico, nel maneggio dove provavamo, davanti a parenti ed amici. La cosa si ripeté pochi mesi dopo in un ristorante della zona che ci conosceva. Ancora una volta era davanti a parenti ed amici.
Poi fummo colpiti da una tragedia. Alla fine dell’anno l’altro chitarrista ci ha lasciati per un infarto. Fu un fulmine a ciel sereno. Ci fermammo per un po’, ma eravamo convinti che lui non avrebbe voluto che smettessimo. Riprendemmo a provare con lo scopo di preparare un concerto nel centro storico del paese il giorno del compleanno dell’amico scomparso. Altri gruppi parteciparono e noi avremmo chiuso la serata con il figlio a cantare assieme noi. Fu il vero battesimo del fuoco. Ci saranno state cento persone in una deliziosa cornice storica. E l’emozione era alta. L’attesa la caricava ancora di più. Siamo saliti sul palco per iniziare con Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd. Dopo il tastierista, solo davanti al pubblica, toccava a me col famoso assolo introduttivo di Gilmour che deve aver sorpreso chi mi conosceva tra il pubblico, ma certo non in quella veste. Dopo il famoso arpeggio, le 4 note magiche, entra la batteria imponente e tutto il gruppo si unisce. Non dimenticherò mai l’applauso che ha scatenato nel pubblico, ripeto, forse preso di sorpresa, non si aspettava una tale esecuzione da parte nostra. E poi l’emozione della motivazione per cui eravamo lì, nel ricordo del compagno scomparso davanti alla sua famiglia. Quella perdita e quello spettacolo commemorativo ci hanno cementati, hanno fatto di noi un gruppo.
Il successivo solstizio d’estate il comune ci invitò ad esibirci nella piazza principale. Subito dopo quel concerto commemorativo ero entrato a lavorare in una fabbrica di un amico. Ero contento di tornare ad essere produttivo ma confesso che il morale era molto basso per via del lavoro umile a cui ero passato con tanto di laurea ed esperienza sul campo. Per fortuna era tornata la musica a supportare il mio benessere ed equilibrio. Quando il pomeriggio dopo il lavoro andai con la strumentazione in piazza e vidi il palco che stavano allestendo per noi ed altri rimasi letteralmente allibito. Mi sembrava davvero troppo per il nostro livello. Ma si stava avverando quello che era un mio rimpianto. Quella sera ci esibimmo con successo e concludemmo con Comfortably Numb, ormai il finale standard dei nostri spettacoli. Con noi c’era ancora un chitarrista che in seguito avrebbe smesso di suonare con noi ma mi avrebbe assunto nella sua azienda grazie alle mie competenze informatiche e di risoluzione problemi tipiche di chi ha formazione scientifica.
Alla fine posso dire che ho trovato lavoro grazie alla musica. Riscoprendo la passione per la chitarra elettrica ho rispolverato il Blues e i grandi chitarristi fondamentali come Jimi Hendrix, Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan, gruppi come gli Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Gov’t Mule. Ho anche rispolverato il mio sogno di ragazzo di avere una Fender Stratocaster, così ho rivenduto bene la PRS e ci ho comprato una Strat Made in Mexico, amplificatore e pedali. Non ho mai capito niente di effetti per chitarra ma mi sono fatto una cultura anche su questo grazie a Youtube. Ho fatto miglioramenti tecnici anche nel suonare, piuttosto notevoli nonostante l’età, recuperando parecchio tempo perso proprio grazie alla massa di professionisti che da ogni parte del mondo continuano a pubblicare video istruttivi con una mole incredibile di informazioni utilissime a uno come me che si era fermato prima dell’avvento di Internet. Il moderno rimpianto è quindi: e se non avessi mai smesso, se avessi studiato, approfondito, migliorato la tecnica….? Ma non è così che funziona.
Una svolta negativa della mia vita mi ha portato a ritrovare la passione di gioventù. Suonare la chitarra in un gruppo mi ha consentito da un lato di mantenere una certa serenità mentale nel periodo più buio, dall’altro mi ha fatto trovare una nuova opportunità lavorativa che ha rimesso la mia vita sui giusti binari. Scusate se è poco!